martedì 4 marzo 2014

TRA UNA PIEGA E L’ALTRA CESARE BERLINGERI ALLA GALLERIA NAZIONALE DI COSENZA



Mostra
Cesare Berlingeri – Compenetrazione
Cosenza – Palazzo Arnone - Sala delle Udienze
Sabato 8 marzo 2014 – ore 17.30
Inaugurazione

Sabato 8 marzo 2014, alle ore 17.30, a Cosenza, Palazzo Arnone, sala delle Udienze, sarà inaugurata la mostra Cesare Berlingeri – Compenetrazione. Interverranno: Francesco Prosperetti, direttore regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Calabria; Fabio De Chirico, soprintendente per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici della Calabria; Mario Caligiuri, assessore regionale alla Cultura; Maria Francesca Corigliano, assessore provinciale alla Cultura; Mario Occhiuto, sindaco di Cosenza e Marilena Sirangelo, Ellebi Galleria  d’Arte di Cosenza. Sarà, inoltre, presente l’artista.
La rassegna, a cura di Fabio De Chirico, presenta gli interessantissimi esiti del percorso culturale di Berlingeri, artista calabrese di fama internazionale.
La mostra segna un’ulteriore tappa dell’impegno della Soprintendenza BSAE della Calabria per promuovere e diffondere i linguaggi del contemporaneo.
La riflessione sulle ricerche estetiche più innovative, anche in questa occasione, non sarà disgiunta dalla valorizzazione dell’ingente patrimonio culturale rappresentato dalle collezioni d’arte della Galleria Nazionale di Cosenza.
La rassegna retrospettiva di Berlingeri, difatti, oltre a ripercorre gli snodi più originali del suo universo creativo, si arricchirà dei volumi e dei colori di undici installazioni site-specific che proporranno al pubblico il personale colloquio dell’artista con i grandi capolavori della GNC.
L’iniziativa è promossa e organizzata  dalla Soprintendenza BSAE della Calabria e da Ellebi Galleria d’Arte di Cosenza con la collaborazione di Vecchiato Art Galleries di Padova e il sostegno di UBI Banca Carime.
La riflessione sull’opera di Berlingeri si avvarrà dei contributi critici del catalogo edito da Rubbettino Editore.
Oltre al percorso espositivo di Palazzo Arnone la mostra di Berlingeri presenta un altro importante corpus di opere presso la Ellebi Galleria d’Arte di Cosenza a partire da domenica 9 marzo 2014.

La mostra Cesare Berlingeri – Compenetrazione rimarrà aperta dal 9 marzo al 4 maggio 2014, secondo il seguente orario: 10.00/18.00 (da martedì a domenica)
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Mostra
Cesare Berlingeri – Compenetrazione
Cosenza – Palazzo Arnone - Sala delle Udienze
Sabato 8 marzo 2014 – ore 17.30
Inaugurazione

Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici della Calabria
Soprintendente: Fabio De Chirico
Cura: Fabio De Chirico
Coordinamento: Domenico Belcastro – Francarosa Negroni
Ufficio stampa: Silvio Rubens Vivone – Patrizia Carravetta 
Tel.:  0984 795639 fax  0984 71246



Per dirla nel modo più semplice, spiegare equivale ad aumentare, a crescere, mentre piegare equivale a diminuire, a ridurre, a <>. Deleuze che cita Leibniz
La presentazione dei lavori di Cesare Berlingeri alla Galleria Nazionale di Cosenza si inserisce all’interno di un percorso intrapreso da alcuni anni e volto a esplorare le molteplici manifestazioni del contemporaneo nell’ambito della produzione artistica più recente.
In questa direzione progettuale si inscrive anche la necessità di sondare i linguaggi del presente posti in un serrato e costante dialogo con le opere del passato. È di fatto una scelta programmatica che si fonda sulla convinzione che un museo non sia un luogo introverso e destinato solo a raccogliere e conservare l’eredità del passato, ma si debba interrogare sul senso del proprio esistere, assumendo un ruolo di propulsione e promozione rispetto alle vicende che lo circondano. Un museo che voglia essere laboratorio e spazio di esperienza e di crescita deve necessariamente interagire con i linguaggi artistici contemporanei, se non vuole rinunciare alla sua vocazione di spazio per la crescita culturale del territorio. In questa coesistenza di passato e presente, di tradizione e sperimentazione, di aulico e prosaico (come qualcuno potrebbe pensare) si gioca la partita, ci si avventura nel terreno incerto del rischio, ma al tempo stesso si tenta di dare un senso preciso all’attività di conservazione e valorizzazione del nostro patrimonio culturale.
D’altro canto non va trascurata la necessità per un’istituzione così determinante nel contesto delle strutture preposte alla organizzazione del sapere di svolgere un’attività di indirizzo e di promozione culturale, finalizzata all’individuazione delle emergenze artistiche del contemporaneo, in vista di una trasmissione al futuro.
Questa premessa ricostruisce brevemente l’antefatto progettuale che ha visto nascere la mostra Compenetrazione di Cesare Berlingeri, da me curata, negli spazi della Galleria Nazionale.
L’incontro con l’artista è avvenuto inizialmente attraverso un catalogo che mi fu recapitato probabilmente in circostanze del tutto occasionali: è importante questa breve nota circostanziale perché fu proprio in quella occasione che rimasi profondamente colpito dalle sue opere, ancor prima di vederle  nel suo atelier a Taurianova. Certo le fotografie rendono solo la parvenza superficiale delle opere, ma ricordo che mi stupì l’essenza che da esse si espandeva, come di fronte a lavori che non si situano in un tempo preciso, in una direzione ben connotata, declinata da movimenti o percorsi ben chiari. Mi sembrava di rivedere le prime opere di Burri o di Fontana, non per assonanze stilistiche, ma per quell’aura di opere ‘oltre il tempo’, per quella sensazione di assolutezza che avevo avvertito solo davanti a pochi maestri.
Il catalogo è rimasto per qualche tempo nel mio studio.
Poi ho conosciuto Berlingeri, ci sono stati vari contatti ed è maturata con una reciproca urgenza il progetto di una sua mostra qui a Palazzo Arnone, che da un lato potesse restituire la visione complessiva degli ultimi anni della sua produzione  - le sale dedicate ai lavori storici al piano terra – ma dall’altro ponesse a confronto le sue opere con i capolavori delle collezioni. La scelta dei contesti e ovviamente delle installazioni site specific  è maturata attraverso le varie ‘incursioni’ e le soste lunghe nelle sale del museo, nel tempo, col giusto tempo che occorreva. Non ho interferito, se non in misura minima, nelle proposte dell’artista, perché ho avvertito immediatamente la sua profonda sensibilità e anche quel necessario travaglio interiore di chi sa di trovarsi di fronte ad una sfida, ma al tempo stesso  guarda ai capolavori del passato con grande rispetto e con uno sguardo puro, come di chi per la prima volta osservi un Mattia Preti o un Luca Giordano. Questo intreccio tra una dimensione profondamente introspettiva e riflessiva, e l’ingenuo candore di un fanciullo mi è parso subito il tratto distintivo di Berlingeri. Un dono, direi. E così è nata Compenetrazione.
Anche quando sono stato a Taurianova e abbiamo parlato, discusso, ragionato in merito al progetto, mi ha guidato nel percorso del suo atelier con l’entusiasmo e la passione di chi mostrasse per la prima volta i suoi segreti, con una tensione interiore che faceva emergere l’emozione di un disvelamento. Gli spazi della creazione sono spesso preclusi, luoghi estremamente intimi, che non vanno in alcun modo violati. Ho provato la sensazione di muovermi tra le stazioni di una sacra rappresentazione, attraverso un percorso che di volta in volta accende i riflettori sul dramma bloccato nell’azione e nello spazio. Ogni lavoro aveva un proprio ambito preciso e nel necessario frastuono di colori e tele ho compiuto un viaggio nella storia dell’artista.
Difatti il suo esordio avviene proprio con il teatro, disegnando e progettando scenari e scenografie già nei primi anni Settanta, un’esperienza importante che ha profondamente segnato il suo percorso, in anni in cui si riviveva il sogno di una contaminazione tra le arti che invadeva gli spazi del sociale, nel segno di forti tensioni ideali.
Ripercorrendo la sua vicenda artistica un dato appare inequivocabile ed emerge con evidenza nei tanti scritti che commentano le sue molteplici esposizioni: egli ha attraversato la modernità e la postmodernità costruendo un linguaggio assolutamente personale, ereditando perciò quella visione monumentale e quella forte tensione ideale che ha caratterizzato le generazioni dell’immediato dopoguerra (Burri, Fontana, Capogrossi), non senza apporti propriamente concettuali (Manzoni, Klein), fino alla Body art e alla performance. Pur tuttavia non ha mai fatto parte di movimenti e ha continuato a lavorare con le tele e i colori negli anni di radicale sparizione dell’opera, con quella condizione di solitaria esplorazione o di “solitudine” di cui più volte parla nelle sue dichiarazioni. Ecco dunque un artista che si pone verso la propria azione con uno spirito moderno, ma attraversato da inquietudini e ansie proprie delle generazioni più recenti. Direi che questa ‘classicità’ si ritrova in tutte le sue opere.
Un anno fondamentale, una cesura essenziale per la comprensione del suo percorso, che costituisce una svolta radicale nella sua ricerca è il 1976, quando accade un evento che cambierà in maniera irrevocabile la sua traiettoria. Così lo racconta: <>. C’è tutto, c’è molto in questo suo racconto.
La sperimentazione innanzi tutto. L’attitudine a dispiegare una tela sul pavimento e ad agire su di essa come solo poteva accadere negli anni dell’action painting, quando ormai non si guardava più alla tela come ad un quadro, ma come ad un materiale, ad un linguaggio. Si poteva agire su di essa e intorno ad essa, inglobando lo spazio nella sua tridimensionalità, nella convinzione che fosse necessario uscire fuori dalle costrizioni della parete ed invadere la realtà con tutti i mezzi a disposizione. Altro dato importante è il considerare la tela come un corpo, un corpo vivo, limitato, ma potenzialmente espanso, il corpo dell’arte; e vi è poi, il dato più entusiasmante, quello della scoperta: la scoperta di una piega, della piegazione, ossia dell’azione sull’opera e sulla materia dell’opera che diviene essa stessa gesto, linguaggio, parte integrante dell’opera stessa. La scoperta della piega segna un confine tra l’ansia di una ricerca (identitaria, artistica, linguistica, spirituale) e l’inizio di un’avventura e di un viaggio nei territori di un codice nuovo, tutto da esplorare.
Una componente essenziale dei lavori di Berlingeri, che aveva catturato la mia attenzione sin dall’inizio, era appunto questa presenza dell’artista nell’opera, questo suo agire sul proprio lavoro attraverso modalità fortemente espressioniste, ma anche molto essenziali, esito di un percorso di riduzione che elimina ogni elemento accessorio per riportare la materia alla sua irriducibile concentrazione.
Ripercorrendo i suoi racconti si fa strada in maniera evocativa il racconto della madre che portava al collo una sorta di amuleto contro il malocchio fatto di un tessuto nero piegato e rigonfio, una presenza allucinatoria in qualche modo, che certamente si è sedimentata nell’immaginario di Berlingeri, come una sorta di chiaro richiamo alle radici, con quanto di irrazionale ma anche di struggente tutto ciò riesce a richiamare.
La piegazione diviene dunque la cifra caratterizzante a partire da quella data. Il gesto del piegare e ripiegare la tela non assurge ad elemento univoco dell’artista, che rivendica con forza il suo essere un pittore, nell’uso di colori e pigmenti, nell’impiego di segni ed elementi grafici, quasi di un personale codice primordiale. Ma il quadro era diventato un limite. L’utilizzo delle pieghe apre così un mondo nuovo, che abbatte le barriere della bidimensionalità per penetrare nello spazio circostante.
Questi lavori dialogano con lo spazio, con tutto ciò che in esso vi è inserito e in qualche modo lo riflettono e lo inglobano al tempo stesso. Gilles Deleuze ha dedicato un suo saggio a Leibniz che ha intitolato La piega, elemento pregnante di tutta l’estetica barocca e paradigma dell’intero pensiero del filosofo tedesco, nonché ovviamente della condizione umana e, se il piegare la carta contraddistingue la cultura orientale (origami), piegare il tessuto è ciò che designa tutta la tradizione occidentale, nell’analisi dello studioso.
Certamente la piega attraversa tutta la storia dell’arte, divenendo componente stilistica di molte e tante declinazioni del linguaggio visivo, fino a trasformarsi in involucro (dall’Enigma di Isidore Ducasse di Man Ray agli empaquetage di Christo e Jeanne- Claude), componente che involve e avvolge, ripiegandosi ed espandendosi, quasi fosse materia incandescente e lavica fuoriuscita e incontenibile. Berlingeri supera l’ambiguità residua dei tentativi di Bonalumi o Castellani, e dello stesso Pino Pascali,  di modellare la tela in sinuosi andamenti plastici, che non riescono a penetrare nello spazio, restando ancorati alla superficie del quadro. A volte si tratta di introflessione, di avvolgimento e sedimentazione, come se il piegare fosse un racchiudere e nello stesso tempo un rivelare.
Le installazioni di Berlingeri si dipanano in tutti gli spazi della Galleria Nazionale, dialogando e interagendo con le opere dei maestri del passato. Si avverte chiaro nei lavori ora esposti il tentativo di racchiudere un mondo nei confini di un involucro che condensa nell’unità la molteplicità dell’esistente. L’impatto immediato sembra un invito alla ‘spiegazione’, quasi un ammiccante provocazione verso l’osservatore chiamato ad intervenire nell’opera. Un invito a comprendere, ad osare per svolgere e disvelare quanto vi è racchiuso. Ma è evidente che il mistero resterà tale. Queste opere piegate mostrano il divenire, la trasformazione che si compie sotto il nostro sguardo di un qualcosa verso qualcos’altro, che diventa nell’astanza, dinanzi a noi. Un tentativo di mettere ordine nel caos dell’informe.
Permane in questi lavori una sensazione di ansia, di inquieta metamorfosi delle forme. I corpi come relitti appaiono mutili evocazioni ancestrali, quasi fossero dei reduci. Si tratta di una geografia di luoghi ambigui, mai completamente risolti nell’assumere forme definite, ma sempre in bilico tra l’evocazione e la negazione di qualsiasi iconografia. È questo credo il lato oscuro e notturno di queste installazioni, che raccontano di una condizione dolorosa e mai pacificante della storia. Ai colori talvolta squillanti si affianca il nero pece che si mescola con crescente drammaticità alla dimensione più ludica e anche ironica in un intreccio che fa di queste opere i paradigmi di una condizione umana tutta contemporanea, perni del dubbio e dell’instabile domanda sull’Essere.
Solo in alcuni casi le sue piegature alludono a frammenti di oggetti della vita reale, cenci o tessuti casualmente accartocciati, come in una sorta di illusorio ready made. Il più delle volte la piegazione diviene quasi un gesto rituale e minuzioso, che compone involucri o stende velari, o arrotola porzioni di tela, che sono in ogni caso intrise di pigmenti, colle e colori. Apparentemente monocromi, i lavori riverberano il gesto della creazione come a segnare la superficie, a voler ribadire la presenza dell’artista.
Una volta superato il confine del quadro i lavori di Berlingeri invadono lo spazio, dialogando con le architetture e definendo nuovi confini formali.  Nella nuova spazialità che determinano segnano anche una precisa dimensione del tempo, trasposto nel gesto del piegare che reca le tracce dell’atto performativo. Il gioco messo in scena lavora attraverso le pieghe sulla costruzione di una nuova forma che cela e rivela allo stesso tempo, nell’ambiguità linguistica propria di chi interagisce tra presenza e assenza: presenza dell’opera, assenza del contenuto. Ecco perché l’ostensione delle pieghe si discosta dall’espansione all’infinito tipico del Barocco – in cui l’accumulo dilata se stesso, in riflessi di rimandi quasi speculari – e si inscrive pienamente nella riduzione all’essenza che è propria di certe declinazioni minimaliste.
Berlingeri ha progettato le sue installazioni in rapporto con le opere, come si trattasse in realtà di un unico grande lavoro, suddiviso per stazioni, o, se si vuole, di un racconto esposto per capitoli. Amore rosso per Mattia Preti riverbera nelle tonalità i colori del Trionfo d’Amore del protagonista calabrese della pittura del Seicento, espandendo  il grande dipinto nello spazio antistante, con una tela rossa lievemente segnata che lascia intravvedere il supporto al colore, come un dichiarazione d’amore da svolgere. La Triade collocata dinanzi all’intimo e raccolto nucleo sacro di Battistello evoca la sacralità dei colori primari e annuncia l’avvento di una storia di salvezza ancora in fieri. La Piccola piega per Ribera emana sentori barocchi di rappresentazioni della Passione di Cristo, come un frammento sgocciolante di umanità tradita e violata, in una condizione che tutti ci accomuna. Il percorso prosegue con un ulteriore incontro con Mattia Preti: questa volta è il Cristo e la cananea, intriso di splendori cromatici posti a scenario di un più drammatico nero, Avvolto nel nero, che denuncia i conflitti e le miserie della nostra quotidiana condizione di limitata umanità. Corpo rosso mi pare tra i lavori quello più drammatico, più carico di un lacerante pathos, che rinvia alle tensioni e al sofferto tenebrismo del dipinto di Luca Giordano, qui in uno dei suoi momenti più caravaggeschi, nel gioco dolente di luci ed ombre spinte all’estremo. Una tensione urgente e un impeto di ascensione si avverte nel Ombre sul rosso piegato, che si colloca al centro della sala dedicata a De Mura, come fosse il contraltare dei corpi dipinti in tutta la loro grandiosità.
Lo spazio antistante sembra essere per Berlingeri il contesto privilegiato per collocare i suoi lavori, che non aspirano al superamento e alla cancellazione della storia, ma si pongono in continuità, come un personale commento alla pittura occidentale, con l’evidente impegno a segnare un raffronto e con tutta la responsabilità di raccogliere un’eredità pesante e talvolta ingombrante. Così Primordiale è tra i maestri del Cinquecento calabrese, Negroni e Cardisco, con una triade di figure bianche distese, quasi a richiamare le origini della pittura stessa e del mondo.
Nella stanza successiva, tra Ribera e Stanzione, tra naturalismo e classicismo dunque, Aria acqua fuoco e terra raccontano degli elementi primari all’origine del tutto, secondo quell’idea dei presocratici certo non estranea alla koinè magnogreca, in cui affondano le radici della cultura occidentale. Mentre viene come imprigionato all’interno della cella semicircolare, retaggio storico dell’antica destinazione del palazzo a carcere e a luogo di reclusione e sofferenza, del corpo come dell’anima, Senza titolo, l’immagine antropomorfa che con le sue lacrime nere si pone a commento dell’artista sul dolore dell’uomo, senza indulgere in ridondanze, ma con la sintesi di pochi segni precisi.
Il percorso della mostra si apre poi al trionfo del barocco, tra Mattia Preti e Luca Giordano, fino a raggiungere i momenti più rappresentativi del Settecento romano e napoletano. Ed è qui che Berlingeri schiera un esercito di forme dolenti in un’installazione corale che,  pur se raccolta in due opere, sembra costituire un dialogo nel dialogo, un rimando di tensioni che, ora disposte informalmente (29 avvolti segnati di carbone), ora ripiegate in forma di croce (Composizione 16 elementi piegati), racchiudono in segni essenziali e nell’assenza di ogni colore, il senso di un dramma epocale. Si legge in questo tratto quanto abbia inciso nel percorso dell’artista l’esperienza del teatro come rilettura e rievocazione della vicenda umana, che si ripete per frammenti sempre identica a se stessa.
Infine, nello spazio prospiciente alla sezione dedicata a Boccioni, 49 frammenti con ombra ripropongono nel ritmo circolare il costante ritorno degli eventi.
Nell’intero percorso espositivo si rilegge dunque il senso di un’opera complessiva, in cui le singole opere, come le singole pieghe, sembrano far parte di un tutto: la piega rimanda ad altre pieghe, con un’idea precisa dell’opera come continuum.
Ecco dunque che la compenetrazione acquista un senso diverso, compiuto, nel mondo delle forme che si riflettono nel tempo e nello spazio, senza soluzione di continuità.


Fabio De Chirico
Cesare Berlingeri è nato nel 1948 a Cittanova, in provincia di Reggio Calabria. Inizia a dipingere giovanissimo, nello studio di Cittanova del maestro Deleo, docente in pensione dell’Accademia di Liegi. Nel 1964 emigra in Piemonte dove lavora presso un decoratore di chiese. Nel ‘68 intraprende una serie di viaggi in Europa, conosce altri artisti e si confronta con il mondo della cultura contemporanea. A Roma, negli anni ’70, inizia a lavorare per il teatro e per la televisione come scenografo e costumista con il regista E. Vincenti. L’attività teatrale, alla quale si avvicina sempre profondamente da pittore, rappresenta una costante nel suo percorso artistico. Fino al 1974 è responsabile per il settore Arte dei centri servizi culturali CIF della Calabria. Ricerca una propria via espressiva sperimentando tecniche e maniere diverse di dipingere, utilizza agenti atmosferici quali vento, pioggia, fuoco che gli permettono di introdurre la casualità e materiali come la calce, il cemento, la carta straccia e la tela.  Le opere di questo periodo sono presentate in occasione della sua prima personale, presso la Galleria AxA di Firenze (1975). Si tratta di lavori ad olio, estremamente materici sui quali l’artista interviene creando dei segni calligrafici mediante l’uso del fuoco. Nel 1976, per la prima rete RAI,  realizza scene e costumi per uno spettacolo circense, collabora ad un laboratorio di ricerca gestuale e visiva e realizza un intervento pittorico-gestuale per una piazza calabrese. Sempre per la RAI, l’anno successivo, è impegnato in un’azione performativa di intervento sul paesaggio urbano. Ricostruisce, coinvolgendo la gente del luogo, il dramma di un paese calabrese colpito da un’alluvione. Berlingeri traccia sulla piazza spazi che ridisegnano i luoghi ormai distrutti, permettendo agli abitanti di riviverli simbolicamente per la durata dell’evento. Contemporaneamente a  queste riprese, la Rai manda in onda il Faust di C. Marlowe con Tino Buazzelli, per il quale realizza scene e costumi. Inizia a lavorare alle Trasparenze (1978), successive al ciclo degli Strappi, riconfermando il suo studio sulla tela in continua evoluzione-trasformazione. Le Trasparenze rappresentano “una ricerca sulla tela e sulla sua penetrabilità, sulla visibilità dell’oltre la tela: un tentativo di non irrigidire il sistema della visibilità” C. Benincasa. Sono lavori costituiti da leggerissime tele di lino sovrapposte, ossia sovrapposizioni di superfici trasparenti che rimandano l’una all’altra e non nascondono i frammenti di colore e le piccole tele piegate che racchiudono. Questo ciclo viene presentato nel 1979 alla Galleria Soligo di Roma ed alla Galleria Civica di Saint Vincent. C. Vivaldi segnala così l’artista sul catalogo Bolaffi (1980): “Sono lieto di presentare un giovane pittore calabrese che, pur vivendo in un piccolo centro, è perfettamente inserito nella linea maestra della cultura internazionale. Si tratta di un artista di sicuro avvenire.” Nei primi anni Ottanta, in occasione della mostra “Racconti colorati”,  alla galleria “Interarte” di Milano, espone grandi tele di lino caratterizzate da segni geometrici e calligrafici di grande liricità. Ripropone, in questa fase, lo stesso concetto delle Trasparenze, di una tecnica che per sovrapposizione non occulta, ma in questo caso attraverso l’uso dell’acquarello. Nel 1985 presenta alla Galleria “Soligo” il ciclo delle Fioriture, anch’esse grandi tele dipinte ad olio ed a smalti industriali con ampi gesti. Nel testo in catalogo, F. Menna ci fa notare come: “…l’artista lavori per serie, come questa delle Fioriture che dà corpo alla mostra odierna, o come le serie precedenti degli strappi e delle piegature: il che vuol dire che le opere singole si inseriscono in un discorso più articolato, dove ciascuna conferisce e riceve qualcosa dalle altre”. Partecipa anche alla mostra 5 mosaici per 5 artisti, assieme a Schifano, Mafonso, Parres e Festa, con il quale, pur nell’assoluta diversità, nasce una grande amicizia e si sviluppa una grande affinità intellettuale. Nel 1986 è invitato ad una collettiva a Tokio, “Mostra sul disegno italiano” ed alla XI Quadriennale di Roma. Alla personale, “Specchio rotto specchio”, espone opere di piccole e grandi dimensioni dai colori accesi, ottenuti con olio e pigmento.   La “Galleria d’Arte Moderna” di Paternò (CT) ospita una sua personale, “Nero, Bianco, Rosso e Blu” (1989). I lavori presentati sono realizzati con una grande varietà di tecniche quali: pigmenti naturali, smalti, acrilici e cere. Sono per lo più dittici e trittici costituiti dall’accostamento di tele monocrome, segnate a volte da carbone e grafite, a lastre di ferro.
Si intensificano le collaborazioni teatrali. Nel 1981 realizza una grande installazione per “La lunga notte di Medea” al teatro Piccolini di Firenze. Nel 1982, per la Biennale Teatro di Venezia, realizza una scenografia per “Il Candido ovvero…” di Leonardo Sciascia; nel 1987, per il teatro stabile di Calabria, cura le scene e i costumi di “Italian Opera Graffiti”.
Dal 1989 al 1995 è docente all’Accademia d’Arte Drammatica della Calabria. Durante questo periodo realizza scene e costumi per gli spettacoli che l’Accademia produce, tra i quali si ricordano: “Le parole, le emozioni, i linguaggi” (1989); “Rose di ghiaccio, studi in dieci movimenti” (1990); “Intrighi d’amore” (1991), per il quale realizza “una grande scena-piega che si apriva e richiudeva, variando lo spazio continuamente” (C. Berlingeri); “Albergo di montagna”, realizzato per il Festival Internazionale Teatro di Praga (1994); “La lunga notte di Medea”, per il Festival di Taormina Arte (1995). Chiamato dalla compagnia “Rossotiziano” di Napoli, nel 1998 cura scene e costumi per “Variazioni” (Majorana). Possiamo ben comprendere come il teatro gli offra la possibilità di sperimentare le sue tecniche pittoriche da una sua frase rilasciata  in occasione di un’intervista riportata sul catalogo della mostra “Nero, Bianco, Rosso e Blu”: “A teatro potevo fare dei grandi quadri che si muovevano sul palcoscenico. Ho spinto al massimo la mia tendenza a fare del palcoscenico un quadro dinamico ed ho usato per questa operazione anche i personaggi come pure indicazioni di colore in movimento”.
I dipinti piegati vengono esposti nel ’90, dopo l’incontro con T. Trini che scrive: ”Ricordo che quando visitai lo studio di Taurianova, in preparazione di un’ampia mostra a Messina, Berlingeri duellava ancora con le perplessità dei suoi sostenitori, per lo più convinti che ‘quegli oggetti’ andassero fuori stile. Ma io ne fui subito entusiasta”. “Opere Recenti”, la mostra a cui Trini si riferisce,  viene allestita nel foyer del Teatro Vittorio Emanuele, dove sono esposti alcuni dittici e per la prima volta le Piegature. Queste tele piegate ed  impregnate di pigmento puro, abbozzate sin dal 1976 in piccole dimensioni, vengono adesso riprese e sviluppate. L’idea delle Piegature nasce da un ricordo della sua infanzia: un piccolo involucro di stoffa nero opaco che sua madre usava tenere al collo come amuleto. Ma l’atto del piegare grandi tele dipinte viene messo in pratica per la prima volta in teatro. Mentre lavora ad una scenografia dipinge una notte stellata su un grande fondale. A spettacolo finito, quando è giunto il momento di smontarlo, si rende conto come di piega in piega, questa grande tela diventi un fagotto di circa ottanta centimetri. In questi anni numerose sono le mostre personali e collettive nelle quali è esposto il suo nuovo lavoro con diversi apprezzamenti critici. Nel 1994 per la Fondazione Mudima di Milano crea una grande installazione a parete, Piegare la notte, composta da circa venti piegature, di dimensioni, forme e colori differenti. Segue la collettiva alla Civica Galleria d’Arte di Gallarate, Riflessione e ridefinizione della pittura astratta. La galleria La Polena di Genova gli dedica una personale Viaggi. In un’altra personale alla Fondazione Mudima (1999), sono esposti oltre alle Piegature, dei piccoli dipinti su piombo. Il piombo è per l’artista: “una materia sorda, una materia che assorbe. Una materia veramente silenziosa”. Sono presenti anche delle grandi tele segnate a carbone nelle quali affiorano “elementi figurali, segni quasi umani, ombre di presenze, cicli che discorrono” T.Trini. Nel 2001 la New Art Gallery, di Padova ospita Dipinti Piegati. In uno dei pensieri tratti dal diario di studio, l'artista, a proposito delle Piegature, dice: "sono pitture che recano in sé un atto sigillato, un atto che indica il tempo della loro elevazione futura come atto di nascita. Ogni piegatura possiede l'intera infinità delle piccole percezioni. Mi fa pensare all'intuizione leibniziana di una goccia d'acqua che possiede al suo interno un intero universo, le cui gocce d'acqua contengono al loro interno nuovi universi e così via all'infinito". Nel 2003 tiene una personale alla Mole Vanvitelliana di Ancona, progettando per i seminterrati  una suggestiva installazione, Viaggi, opere anch'esse piegate, ma in questo caso più volumetriche e concepite per invadere lo spazio.
T. Trini cura un’importante monografia sul suo lavoro edita da Skira. Il suo paese natale lo omaggia con una retrospettiva molto singolare, perché si avvale di lavori storici, figurativi che l’artista non sempre ama mostrare, proprio come i suoi disegni,  poiché rappresentano una sorta di diario per immagini della sua vita. E’ invitato,  dal Comune di Padova, a tenere una personale a Palazzo Moroni. Nel 2004 partecipa ad una collettiva al Museo Nazionale di Arezzo, “Da Picasso a Botero”. Un anno dopo la Calabria si fa promotrice di due ampie personali. La prima presso il Castello Aragonese di Reggio Calabria con un’ampia retrospettiva “La pittura piegata”. Per una delle sale, quella della torre, realizza Deposito di stelle, un’installazione composta da grandi piegature blu, accatastate su delle pedane di legno, per la quale V. Baradel scrive: “Il cielo notturno di Berlingeri precipita al fondo della torre del castello. La sua luce blu si fa colore solido ripiegandosi nello scrigno della tela. Volte stellate sono quelle di Giotto ad Assisi e a Padova. Il fondale del cielo, sempre lui, piegato e ripiegato ora giace a terra, salvato dalla cecità degli uomini e dei e messo al sicuro nelle segrete viscere della torre. L’alto e il basso si affratellano quando le stelle scendono nel punto più basso”. La seconda grande mostra in Calabria è l’antologica “Cesare Berlingeri, Materia” 1975 – 2005 che si tiene presso il Complesso Monumentale S. Giovanni, a Catanzaro. I Corpi sono l’ultimo ciclo dei suoi lavori. E’questo è il titolo della personale che si tiene nel 2006 a MUDIMAdrie, Anversa. Sono corpi d’aria, rivestiti da una superficie levigata, generati da una materia “che agisce come il pane, cioè respira, si gonfia, cresce come la vita, come gli alberi. E poi la curiosità più bella è che bastano tre chiodi puntati qui e là e questa forma cresce in maniera diversa…” C. Berlingeri. A Padova la Vecchiato New Art Galleries, presenta “Vele per nessun mare” (2007). I lavori proposti sono sculture, piegature in alluminio dipinte con pasta di smalto. Anche su questo metallo, come precedentemente per il ferro e per il piombo, avviene la ‘transustanziazione” attraverso il particolarissimo uso del colore.
Nel 2007 il MAC Museo de Goiania gli dedica un’ampia antologica: circa 200 opere illustrano il percorso dell’artista dagli anni Sessanta fino ai lavori più recenti. La stessa è ospitata nei mesi successivi al MAM Museo de Arte Moderna de Salvador de Baia ed al MAM Museo de Arte Moderna di Rio de Janeiro.
Tra il 2008 e il 2011 i suoi lavori vengono presentati a: 11 th International Cairo Biennale; Anniart 798 Factory, Pechino; CAMS, Centro Arti Musica e Spettacolo, Università della Calabria; Galleria Ellebi, Cosenza; Studio Lattuada, Milano.
Nel 2012 la Fondazione Rocco Guglielmo, la Fondazione Rotella e la Vecchiato Art Galleries organizzano a Catanzaro un’esposizione dal titolo “Ghiacci e ombre”. “(…) l’installazione dei Ventinove avvolti con ombra nell’azzurro (…) e Primordiale (…) sono due stazioni che avvicinano ulteriormente il nodo cruciale, rappresentato dalla presenza dell’umano in ogni forma visibile che ci circonda. La prima è una presenza culturale (…), l’effigie di un essere e di una sua azione ormai incomprensibile; la seconda, invece risale ancora più indietro nella definizione di questa specie di “ur-form”, di “forma originaria”(non a caso si titola “Primordiale”) dell’essere. In entrambi i casi si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad un “ritrovamento”, all’emersione da un tempo diverso di qualcosa che ci riguarda da vicino e che un po’ ci inquieta perché, ancora una volta, ritroviamo le nostre fattezze. E la nostra coscienza – ma anche il nostro istinto – ci impone di guardarle come parte di noi”. (Marco Meneguzzo, curatore della mostra).

pubblica:
Massimo Nardi