La parete, concepita come elemento strumentale, funzionale di un avvenimento e dunque di un presente mutevole, dinamico e incerto. Il muoversi nello spazio è pensato come un muoversi dall’esterno verso l’interno, dal basso verso l’alto (e viceversa), senza mai poter essere certi di dove si è, di cosa si è visto. Ogni elemento in mostra è concepito come parte di una narrazione che non può essere ricondotta a una sola decodifica ma si fa esperienza allucinata di qualcosa che potenzialmente non appartiene al mondo fisico, tangibile. Gli elementi costitutivi che racchiudono o aprono lo spazio non sono intesi come superfici, quindi, ma come elementi architettonici essenziali, atti a contenere, racchiudere un’altra porzione di realtà (o una sua contraddizione), un interstizio tra mondi. Uno spazio che pretende di essere in connessione diretta con chi guarda, come uno scenario composto da potenziali indizi e ipotetiche trappole. Non vi è spiegazione univoca di cosa si è visto, di cosa sia realmente accaduto o delle interferenze inevitabili dell’immaginazione.
Una stanza chiusa, una rampa di scale, un graffio sulla parete. La mostra di Alessandra Cecchini e Riccardo D’Avola-Corte si apre come una scena già accaduta. Un viaggio percettivo che si snoda attraverso una serie di indizi e che disseziona limiti e aspetti dell’attività umana più banale e assoluta: l’osservazione.
Il titolo è il primo indizio. Dato un muro, che cosa succede dietro? è una citazione di Jean Tardieu che campeggia in alto sulla pagina in cui George Perec in Specie di Spazi 1 scrive:
Metto un quadro su un muro. Poi dimentico che c’è un muro. Non so più che cosa c’è dietro il muro, non so più che c’è un muro, non so più che questo muro è un muro, non so più che cos’è un muro. Non so più che nel mio appartamento ci sono dei muri, e che se non ci fossero muri, non ci sarebbe l’appartamento. Il muro non è più ciò che delimita e definisce il luogo in cui vivo, ciò che lo separa dagli altri luoghi in cui gli altri vivono, non è più che un supporto per il quadro. Ma dimentico anche il quadro, non lo guardo più, non lo so guardare.
Teniamolo un attimo da parte. L’ambiente è circoscritto da pareti incontaminate. La parete speculare all’ingresso, però, è stata violata: incisioni profonde e irregolari spezzano l’intonaco a opera di una zampa antropomorfa, prima presenza svelata. La rampa di scale adiacente ostacola la vista di una narrazione che lentamente prende corpo al piano di sopra. Lo spazio è dato, come il muro, come la porta di quercia che Marcel Duchamp realizzò al Philadelphia Art Museum nel 1969 per una delle sue opere più celebri: Étant donnés: 1. La chute d’eau, 2. Le gaz d’éclairage. Dopo qualche tempo, i curatori del museo furono costretti a indicare di osservare attraverso i fori realizzati nella porta, di fronte alla negligenza del pubblico che passava oltre senza sbirciare.
Cecchini e D’Avola-Corte giocano con la natura domestica dello spazio di Struttura, sovvertendo il rapporto tra pubblico e privato, interno ed esterno, collocando lo spettatore nella posizione dell’intruso che valica il confine della dimensione intima. Il corpo diventa visibile e ingombrante, e un automatismo insito nel desiderio di incedere oltre lo spinge lungo le scale. È in questo cortocircuito tra attrazione e repulsione che si costruisce l’architettura emotiva della mostra. La relazione tra Étant donnés e Dato un muro, che cosa succede dietro? non è solo un omaggio formale, ma una riflessione condivisa sul gesto del “dare” e sul modo in cui questo gesto interroga la percezione. In entrambe le opere, ciò che è dato non è mai interamente visibile, ma sempre parziale, condizionato, filtrato. Il dato non implica una piena disponibilità, ma piuttosto un’apertura enigmatica: qualcosa ci è offerto, ma nel momento stesso in cui si mostra, si sottrae. In questo caso è l’ambiente stesso ad agire come ostacolo e interstizio, mentre le opere si configurano come presenze sospese che contribuiscono narrativamente all’ambiguità di ciò che rappresentano.
Al piano superiore, una creatura dai tratti mostruosi giace su un tappeto di velluto che richiama, secondo un gioco linguistico delicato e ironico, la forma vegetale della Monstera. La ricerca di Alessandra Cecchini, incentrata sul rapporto tra identità e memoria e quella di Riccardo D’Avola-Corte, che si insinua nelle fenditure del reale tra sentire collettivo e intimità, si incontrano in questo contatto. Un’incomunicabilità tra mondi che nascono distanti e che momentaneamente coabitano. L’alterità prende forma nella mostruosità e nelle beautiful things wrapped in darkness, per dirla con David Lynch, altro riferimento esplicito del progetto. Pensiamo alla scena di Blue Velvet (1986) in cui Jeffrey nascosto nell’armadio, spia attraverso le due ante l’oggetto del suo desiderio e diventa testimone involontario di una delle sequenze più violente e disturbanti della storia del cinema. Ciò che si staglia all’altezza della nostra vista qui è altro. La narrazione espositiva culmina in un dipinto bicromo che galleggia nello spazio: la cornice rossa perimetra un viola profondo dal quale si stagliano pennellate curve, una spirale che sembra avere attratto, o forse originato, tutti gli elementi che compongono l’ambiente. Dal soffitto pendono due sculture dalla forma cangiante che riflettono lo stesso movimento rotatorio. Sul pavimento gli oggetti appaiono come svuotati della loro essenza e prosciugati, esoscheletri di creature primitive. Le mura dello spazio racchiudono un mistero. Di questa esperienza ciò che sopravvive è la percezione, mentre l’oggetto della vista resta incerto. Maurice Merleau-Ponty esprime perfettamente questa dinamica, ne La fenomenologia della percezione 2: Vedere significa entrare in un universo di esseri che si mostrano, ed essi non si mostrerebbero se non potessero essere nascosti gli uni dietro gli altri, o dietro a me.
L’oggetto si manifesta solo nell’orizzonte del possibile, nell’incontro con il corpo e lo sguardo che lo accoglie. In questo senso, l’intero impianto espositivo della mostra è una messa in scena fenomenologica: non si tratta di decifrare un significato nascosto, ma di abitare una soglia, un campo percettivo in cui ogni elemento è un dato sensibile che si completa solo nell’esperienza incarnata dello spettatore. È infatti il corpo, e non l’oggetto, a costituire la costante della percezione, il suo orizzonte latente. Il corpo è riconoscibile a sé stesso non da uno sguardo esterno, ma proprio grazie alla reversibilità della percezione: attraverso le “sensazioni doppie”, come quando una mano tocca l’altra e al tempo stesso si sente toccata, o quando le due gambe, le due braccia, si percepiscono in reciproca presenza.
La mostra si muove così tra più livelli semantici e linguaggi, non necessariamente contrapposti ma continuamente rimescolati: tra scultura, pittura e installazione, ma anche tra il piano della narrazione e della sua evocazione, tra ciò che è visibile e ciò che non lo è. I dati disseminati nello spazio, non raccontano, ma suggeriscono, sono indizi in attesa. Dato un muro, che cosa succede dietro? è visitabile da due persone alla volta. L’altro, ci permetterà di avere cognizione del proprio corpo, o meglio, della presenza del proprio corpo nello spazio. La mostra si compone infatti nella mente di chi osserva, come un’indagine senza soluzione o un sogno che resta addosso. E, un po’ come in Inception (2010) di Christopher Nolan, dove i personaggi che viaggiano nei sogni portano con sé un talismano per ancorarsi alla realtà, anche qui potrebbe essere utile stringere qualcosa tra le mani, e non perdere d’occhio il compagno o la compagna con cui si esplora il luogo. Forse è questo lo spazio generativo dell’immaginazione: ciò che non vediamo, ciò che supponiamo dietro un muro.
1 G. Perec, Specie di Spazi (1989), tr. It. R. Delbono, Bollati Boringhieri, Torino 2018.
2 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), tr. it. A. Bonomi, Bompiani, Milano 2003.
Alessandra Cecchini (Rieti, 1990). Ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Perugia e all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Nel 2019 entra a far parte dell’artist-run space romano Spazio In Situ e dal 2020 è nella redazione di ISIT. La sua ricerca artistica prende avvio da riflessioni intorno ai concetti di identità e memoria e al rapporto di questi ultimi con l’immagine e le dinamiche attraverso le quali questa determina la nostra percezione del mondo. Quest’ultimo, frammentato e ricomposto, contrapposto e duale, appare come il territorio di incontro-scontro tra reale e virtuale, entro il quale l’artista ricerca degli elementi contraddittori e dei confini labili così come degli spazi di continuità.
Fra le ultime mostre: The Spanish Steps, a cura di Luca Caddia and Fulvio Chimento, in collaborazione con Ella Francesca Kilgallon e Carlotta Minarelli (Keats and Shelley House, Roma, 2025); Tsunami, a cura di Ludovica Tata (Liminal Space, Roma, 2025); Pit-stop (con un contributo di Cesare Pietroiusti, Spazio In Situ, Roma, 2025); The Voyage Out, a cura di Domenico De Chirico (A.MORE Gallery, Milano, 2024); Be the difference...with Art! (Museo Canova, Possagno, 2024); Name: Crungus Classification: unknown, a cura di Caterina Taurelli Salimbeni (Parentesi Tonde, Palermo, 2024); Just add water: something fishy (PrimaLinea Studio, Roma, 2024); Performa, a cura di Collettivo Ostiense (Università di Roma Tre, 2024); Solar Dogs, a cura di Caterina Taurelli Salimbeni (Spazio In Situ, 2023), Fotoelettrico, a cura di Davide Silvioli (duo show, MA PROJECT, Perugia, 2023), Mostra dei finalisti del Talent Prize 2022 (Museo delle Mura di Roma, 2022), Materia Nova, Nuove generazioni a confronto, a cura di Massimo Mininni (Galleria d’Arte Moderna di Roma, 2021), Contenere il cielo (Chippendale Studio, Milano, 2020).
Riccardo D’Avola a.k.a Riccardo D’Avola-Corte vive e lavora tra Roma dal 2021. Dal 2023 è parte di PrimaLinea Studio. Si è formato all’Accademia di belle arti di Brera, Milano sotto la guida di Gianni Caravaggio e Fabrizio Gazzarri. Ha esposto in vari spazi, gallerie e musei, tra cui, nel 2017, con il caffè internazionale di Palermo ha esposto al MAXXI per “the independent”. Nel 2019 ha realizzato la sua prima mostra personale negli Stati Uniti “You will never understand what your caresses leaving on me” curata da Ben Sang per Final Hot Desert (Bonneville Salt Flats, Utah, Stati Uniti) e per Hyperspace Lexicon volume 4 a cura di Nicholas Campbell (Los Angeles, California) nel 2021. Ha partecipato a Infinite-Scroll al TraumabarundKino di Berlino con I8I durante la Berlin Art Week 2021. Ha preso parte al progetto Falconer con il collettivo I8I. La ricerca di Riccardo D’Avola Corte si è articolata nel tempo su vari fronti ed immaginari, questi sempre in bilico tra un sentire comune e intimità. Il suo è uno sguardo diventato pratica che s’insedia nelle fenditure della realtà, nelle incomprensioni, nei conflitti, negli scontri, nelle tensioni di ciò che lo circonda e di ciò che vive. Incomprensioni, limiti, che diventano il punto di partenza per indagare, e comprendere ciò che emerge fino a trasfigurare tutto, senza mai alterarne l’essenza. Storie di residui che diventano arabeschi, storie di ripetizioni, ma soltanto per coglierne le differenze nella stratificazione del tempo. Velocità, erotismo, lentezza, profondità, coesistenza, tempo, naturale e artificiale, sono sempre state le fondamenta della sua pratica, le tracce su cui poter comparare e far scontrare i vari livelli di realtà, di presente che trasmigrano nel suo lavoro. L’idea è quella di voler costruire una visione senza immagine, di creare uno scavalcamento per superare “lo schermo” che si pone davanti al testimone dell’opera. Minare un equilibrio, ferirsi ed accarezzarsi con la pittura. Configurare un corpo nudo e tagliente, ma anche candido e sensuale, sempre in attesa di sfuggire o di sprofondare nel confine in cui noi tutti siamo.
Caterina Taurelli Salimbeni (Roma, 1992) è curatrice e scrittrice. La sua pratica si sviluppa attraverso progetti editoriali, mostre e programmi pubblici, concentrandosi sul potenziale narrativo del reale. È stata direttrice artistica di Manifattura Tabacchi a Firenze e ha collaborato con istituzioni a Parigi, Milano, Roma, Firenze, Cape Town e Venezia. Attualmente lavora presso il MACRO - Museo d’Arte Contemporanea di Roma.
Struttura esplora il divario tra realtà e rappresentazione, indagando come il mezzo — nella sua qualità sensibile e percettiva — influenzi e modifichi la comunicazione. L’interazione tra contenuto e forma, una ricerca sul modo in cui il mezzo stesso modula l’esperienza e il significato di ciò che trasmette.
Alessandra Cecchini e Riccardo D’Avola-Corte . Dato un muro, che cosa succede dietro?