Era il 2003 quando Francesco
Annarumma esordiva come gallerista a Napoli. Dieci anni e due traslochi dopo,
ecco allora la mostra che celebra la prima decade di un mestiere rischioso,
esponendo le opere di alcuni di quegli artisti che hanno definito il profilo di
uno spazio dedito alla ricerca e all’approfondimento dei giovanissimi umori
dell’arte internazionale.
Dan Attoe (1975 Bremerton vive e lavora a Washougal
WA ) è stato tra i primi a varcare la soglia della allora ‘404 arte
contemporanea’, con dipinti in bilico tra realtà e immaginazione al pari di un
film di David Lynch o Gus Van Sant. Ambientazioni rurali o simboli del popolare
metropolitano costituiscono gli sfondi privilegiati dove inscenare un’analisi
del concetto d’identità, affidandone un’impietosa disanima allo spettatore
mediante l’ausilio del campo lungo, che ne impedisce qualsiasi possibilità di
coinvolgimento emotivo.
L’Identità ritorna anche
nell’opera di Carter (1970; vive e
lavora a New York), come porzione di una diade che, insieme al frammento,
definisce la ricerca tutta del newyorkese: l’eterna lotta tra essere e dover
essere, cara a tanta letteratura d’autore, qui si connota di difficoltà
generate da nevrosi e fobie figlie dell’odierna transitorietà, disseminando la
tela di residui d’esistenza.
Con Flag Girls – presentato nel 2008 alla sede milanese della galleria
– Jen DeNike (1971, Norwalk; vive e
lavora a New York) s’interroga sulla genuinità del sogno americano: come in un
teatro a rovescio, infatti, l’artista americana ne scopre contraddizioni,
vulnerabilità, fino a rivelare i giochi di potere che si consumano all’ombra
del perbenismo spacciato come valore, in un percorso stilisticamente nuovo
rispetto ad Americans di Robert
Frank, cui sembra fortemente ispirarsi.
F for Fake, film del ’73 per la regia di Orson Welles, racconta la
storia del falsario Emily De Hory mentre solleva interrogativi spinosi – e in
parte ancora insoluti – sul concetto di arte e i criteri per la sua
definizione, costituendo un ottimo prologo per la pittura di Gabriele Di Matteo (Torre del Greco
(NA) 1957 vive e lavora a Milano), unico italiano presente alla kermesse napoletana.
Sfruttando il suo superbo talento pittorico, infatti, il napoletano crea corto circuiti d’identità tra artista-persona e oggetto-opera, riducendo il più possibile quest’ultimo ad uno standard empirico che, tuttavia, proprio nella perdita dell’aura conserva il carattere speculativo della ricerca.
Sfruttando il suo superbo talento pittorico, infatti, il napoletano crea corto circuiti d’identità tra artista-persona e oggetto-opera, riducendo il più possibile quest’ultimo ad uno standard empirico che, tuttavia, proprio nella perdita dell’aura conserva il carattere speculativo della ricerca.
Sugli slittamenti di senso della
‘cosa’ d’arte sembra interrogarsi anche Eduardo
Sarabia (1976; vive e lavora a Los Angeles), con un linguaggio ironico e
pungente, stilisticamente attinto dal patrimonio latino dell’artista, che egli
deride attraverso l’indagine dei più abusati cliché messicani sul traffico di droga, il banditismo e il
contrabbando di cattivo gusto, sia quando lavora sull’oggetto, sia quando
s’impegna in vivaci e articolate performance.
Haavard Homstvedt (1976; vive e lavora tra Oslo e New York), ospite
della galleria annarumma nel 2011, ci ritorna con una tavolozza meno
contrastata in cui la vivacità del colore sembra diluirsi a
favore di una pittura che declina
lo studio della forma mediante accordi di grigio interamente giocati su
tonalità chiarissime, pallidi come le atmosfere delle eventyr, le antiche fiabe norvegesi.
Rashid Johnson (1977, Chicago; vive e lavora a New York), artista
celebrato all’ultima Biennale di Venezia, lavora sull’analisi delle
conquiste/sconfitte compiute dalla comunità afroamericana con un linguaggio
fatto di riferimenti alla storia e alla letteratura, spesso svelando
contraddizioni e amnesie del difficile percorso di autoaffermazione del sé
nero.
La comunità di colore è solo
l’osservatorio privilegiato che un altro esponente della post-black art, Hans Willis
Thomas (1976, Plainfield; vive e lavora a New York), sceglie per indagare la ricaduta infausta della profonda e
radicata omologazione della comunicazione, colpevole di pregiudizi e fomentatrice
di nuovi fantasmi xenofobi.
Un calviniano ‘pensare per immagini’ è ciò che innerva
tutta la ricerca artistica di Bert
Rodriguez (1975; vive e lavora a Miami): una ‘leggerezza della pensosità e non della frivolezza’ emerge infatti
nell’ironia concettuosa con cui, di volta in volta, realizza l’opera, sempre
foriera di una riflessione dell’artista sul luogo in cui sceglie di esporre; e una
molteplicità come “rete di connessione
tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo”. Egli si fa così
esploratore che avanza per tentativi nello sforzo di rivelare qualche aspetto
sconosciuto dell’esistenza, e soltanto quelle forme che soddisfano quanto il
suo sogno chiede diventano parte della sua opera. Una “polifonia delle cose”,
dunque: una mobilissima e ricca visitazione di una pluralità di temi, di
suggestioni, d’immagini.
Diego Singh infine (Argentina 1979
vive e lavora a Miami), responsabile dell’inaugurazione della stagione
espositiva corrente. Dall’ultimo comunicato leggiamo: “Il linguaggio e il corpo come collegamento con la realtà, con il
Presente, pervadono l’opera di Singh; i suoi quadri formano una catena di segni
[…] con uno stile che Singh destruttura fino ad arrivare al loro aspetto
essenziale: scarabocchi, insegne al neon, materiali comuni (come nella serie
Denim) o anche lingua che si libera dalla grammatica e dalla logica e
diventa “Captcha” (Il captcha è un tipo di test fatto di domande e
risposte usato in informatica per determinare se l’ utente sia una persona e
non un computer).
segnalato a
Massimo Nardi