mercoledì 15 febbraio 2012

A CRISTANZIANO SERRICCHIO IL "LAURENTINO D'ORO" E LE LODI DI GIOVANNI DOTOLI con QUESTO ENIGNMA CHIAMATO VITA

GIOVANNI DOTOLI

“QUESTO ENIGMA NOMINATO VITA”
CRISTANZIANO SERRICCHIO
POETA MEDITERRANEO


Conosco la poesia di Cristanziano Serricchio da molti anni. Da dauno a dauno, direi che, accanto ai miei modelli francesi, da François Villon a Yves Bonnefoy, e italiani, da Francesco Petrarca a Giuseppe Ungaretti – mi piace attraversare l’intera storia letteraria delle mie due patrie –, la sua parola sia uno dei miei punti di riferimento. Sono fortemente innamorato della classicità moderna di questo poeta della nostra terra, e dei suoi messaggi che sanno di eternità.
Ma da sempre andavo leggendo la poesia di Serricchio come il nuovo nell’infinito della storia, la parola che, nel rispetto della poesia di un tempo, si incunea nei meandri della letteratura del nostro tempo.
E non scorgevo un’evidenza, che grazie a una ulteriore lettura, in questo periodo di mio rinnovato interesse per il Mediterraneo e le sue civiltà, mi è d’improvviso apparsa in tutto il suo fascino e la sua profondità.
Cristanziano Serricchio è un poeta mediterraneo in tutti i sensi. Rileggendo la maggior parte delle sue raccolte, da lui cortesemente inviatemi, la mia mente si è aperta, e ho avuto confermo di una intuizione cui un tempo non avevo dato seguito.
Ecco, forse è qui la chiave di lettura della classicità di Serricchio. La sua poesia esce dal tempo, non è né del XX né del XXI secolo: è di tutti i tempi, come quella dei grandi poeti mediterranei.
Lo scorrere dei suoi versi mi ha riportato alla lezione di Fernand Braudel, al senso del tempo da Omero a oggi, alla rotta delle navi che solcano l’azzurro del Mediterraneo, alle voci dei porti e delle isole, delle pianure e dei borghi che incoronano il Mare Nostrum.
Appare così in tutta la sua storica importanza la grande lezione della parola delle Stele daunie, apparse nel lontano 1978. Serricchio meriterebbe di essere in tutte le antologie della poesia mediterranea.
Scrive il poeta turco contemporaneo Özdemir Ince nell’ultimo verso di un suo poema: “Ritorno a casa: il Mediterraneo”. La poesia di Serricchio compie lo stesso tragitto: ci riporta a casa, dopo infiniti viaggi, la casa del Mediterraneo, cantata da Omero, appulo come Serricchio – all’epoca, la sua città natale, Venusia, oggi Venosa, faceva parte dell’Apulia in ogni senso, geograficamente e antropologicamente.
Ha ragione il grande scrittore francese Raymond Queneau: si potrebbe trovare un’Iliade o un’Odissea all’origine di tutte le grandi letterature nazionali. Serricchio si inserisce in questo quadro, tra origine e storia, tempo millenario e tempo dell’attualità, da maestro della letteratura nazionale.
Leggendo Serricchio, mi sembra di spaziare tra terra e mare, casa – il focolare – e azzurro del cielo, civiltà che hanno fatto il giro del perimetro mediterraneo e senso del luogo – il genius loci –, in una filigrana di parole che si inanellano come perle.
La casa, con al centro la figura femminile – si vedano i meravigliosi lamenti poetici di Serricchio in ricordo della dolce sposa Delia, sui cui tornerò –, diventa un po’ quello che ci narra Gaston Bachelard : il punto da cui tutto si dipana, nel sogno e nella vita. Da questo luogo partono la conoscenza di se stesso, la ricerca del luogo poetico, la traiettoria della vita e il viaggio nella storia.
Serricchio è un nuovo Ulisse che viaggia per le terre della Daunia – nella notte dei tempi il Tavoliere è stato un mare –, alla ricerca del Punto, tra le tracce sublimi dei morti, nostri fratelli lontani, immortali segni del tempo nel tempo. C’è nello scavo delle tombe mediterranee della Daunia la ricerca della storia, ma anche e soprattutto la quête del senso della parola mediterranea, quel senso di lingua franca, che diventa parola universale di poesia.
Il che allarga l’orizzonte di Serricchio all’intero Bacino, e al mondo. Egli non è un poeta dauno, ma un poeta del mondo, un classico della modernità, che sa leggere i misteri del cielo, del deserto-Tavoliere, dei cavalli del mare, degli uccelli della notte, dell’umanesimo delle pietre, che purtroppo in maniera sconsiderata stiamo distruggendo.
Quante volte Serricchio cita la parola pietra? Non è la sua pietra – da quella tombale a quella della roccia del mare, dai ciottoli alle stele, dalle case al focolare – un traccia indelebile del Tempo? Sì del tempo, di quel tempo contro il quale lotta tragicamente Charles Baudelaire, e che invece in Serricchio è il flusso dei giorni, necessario e umano, tragico e solenne.
Tutto in lui sembra rivivere il tempo della storia. Un passato complesso si fa oggi. Con pazienza certosina, Serricchio va alla ricerca dell’esistenza, narrata per terra e pietra, uomini e persone che ama – la compagna, i figli –, come se volesse rifiutare il passaggio dei giorni, per inquadrare la poesia nel suo solenne quadro della vita, nel tempo di ieri e nel nostro quotidiano andare.
La storia minima della scuola delle Annales francesi diventa grande storia. Il privato è una scintilla dell’eternità, “dopo l’alba”. I cocci dell’antichità non sono segni della morte ma della vita. Le ceramiche di Puglia che l’aratro distrugge, sono tracce di Ulisse e Diomede, macerie che la poesia ricostruisce, gemme che ritrovano il loro antico splendore.
Serricchio è il Cavafis della Daunia, o l’Adonis della Puglia. Una luce penetra i suoi versi mediterranei, quella di Omero e Ovidio. I reperti della storia sono parole che vengono da lontano, con la loro aura di affetti, incanti e voci amorose.
Per questo Serricchio si allinea alle grandi voci della poesia che dialoga tra Occidente e Oriente. Rivedo sovente nel suo sogno la creatività onirica della poesia araba di ieri e del nostro tempo – penso al mio amico poeta libanese Salah Stétié.
E’ come se scorressimo un vangelo in poesia, o qualche surata del Corano. Gli “strati di silenzio” delle stele daunie, per “gesti fermi di millenni”, come “i morti” indicano “la via del sole”. Gridano vasi e tombe “nell’eterea luce”: “la brezza tende ancora la vela”.
L’acqua del Mediterraneo e la terra della Daunia si incontrano “alle sorgenti inquiete della vita”. “La fredda morsa del mare” non chiude la storia, ma la protegge, tra danze di donne e voli di gabbiani.
Ecco allora il “potere interminabile della certezza che torna”, certezza di morti e di vivi, di terra di transito e di stagioni dell’uomo che da sempre continua a vivere negli stessi luoghi. “La lunga epopea / di morte è nella quiete / dei vasti campi /arati dalla luna”.
Il “tremito dolente del mare” ci dona “il silenzio dei fratelli /erranti per la medesima sete”. E appare fulgida la “luce degli dei”: “l’oroscopo si scioglie / nella danza e nel sanguigno canto lunare”. No, le “intemperie” non hanno vinto. I pellegrini che attraversano mari e terre, e che incrociano “le bianche ossa disperse”, al fuoco delle stoppie, hanno lo sguardo “aperto in una fissità remota”, sulla rotta della storia.
La memoria della poesia di Serricchio mulina magie di luce, profumi di ginestre, canti e segni che portano “al più dovizioso porto /nell’invisibile oceano”. Ecco allora sorgere alla vista ulivi greci e romani, “fuochi saraceni”, “spade inabissate dell’Islam”, nel “crocevia di memorie”, nella “rovina tremula degli scogli”.
“L’antico dio mare” ci protegge, per condurci alla “perla del sole”. “I solari remoti orizzonti” ci appaiono dipinti di voli di gabbiani, nel mare di Puglia che è simbolo dell’intero mare Mediterraneo, per “sottili coralli di memoria”. Non importa se incombe la nebbia. E’ il senso della storia mediterranea che conta, in questo lembo di Sud, tra cicale, stoppie e “magri giunchi” divelti dal bracciante pugliese, simbolo meraviglioso dell’homo mediterraneus, “nel pulsare lento del tempo”.
Scorre il vento come la storia, nella poesia di Serricchio. La quiete delle tombe, della piana e del mare ci conduce su una vela fenicia, “per onde stanche o di burrasca / al largo dei rimorsi e delle stagioni”, “fra i pini tremuli oltre il mare”. “I fondali delle lune”:

Reggono con mani di velluto
la vela bianca e nera
verso giardini di palme sospese
e nidi profumati di voli
alti sui colori
improvvisi del mare.

Ho la chiara certezza che Serricchio inquadri il Mediterraneo – Nord e Sud, sull’una e sull’altra costa – nello spazio euro-mediterraneo, in una unità esemplare, che rende il Sud non più maledetto ma benedetto da Dio e dalla storia, in una “bella favola senza fine”. Qui, nella sua terra mediterranea, poeta mediterraneo al mille per mille, Serricchio trova finalmente “la calma luce della gioia”, “la stupenda luna dell’amore”, il “Tempo senza sponde” e i “profumi nuovi del cielo”.
La memoria ritorna con tutto il suo fascino, con la sua energia, che dà “la piena / del cuore in libertà di canto”. La verità è “nel fondo delle pietre”, nelle orme del passato, nei “segni scuri del tempo”, nel “vento / della gioia” e nella promessa della parola.
Non sono più assenti gli uomini. Le orme delle antiche dimore parlano e sorridono. Le farfalle narrano di memorie. Serricchio torna nudo sulle rotte dei mari, dei ruscelli e delle terre, alla ricerca dei segni. Misurando il flusso dei giorni, riprende le fila della protostoria, “nel tempo senza sponde” e nel “silenzio disseminato / fra arcate distrutte”.
Tutta la filosofia mediterranea è nella poesia di Serricchio, mai invadente, mai lezione invasiva, ma sempre dolce parola d’amore, luce di segni incancellabili del “gorgo della vita”, che è un “numinoso altare”.
Leggiamo i grandi poeti del Mediterraneo: in tutti ritroviamo gli stessi temi della poesia di Serricchio, nelle ragnatele della memoria, sempre viva, sempre ricca di lezione struggente. Come i “coriandoli di case e policromia / di volti e parole” e le “carrucole ferme /nel trasparente suono dell’aria” dei vapori di Venezia, la voce di Serricchio scende nel “tempo che va via”, “brezza àsola piano tra gli aranci”, per donarci “una bellezza vasta come il mondo”.
Le “morte città di sale” del Mediterraneo non sono morte, ma tra “lacrime e pioggia” ci indicano la nuova-antica rotta da seguire, per sopravvivere-vivere, in questi tempi difficili.
Serricchio sa che siamo a un bivio di non ritorno. Nel poema Uomo mediterraneo mi dici, affronta di petto le rovine del Mare Nostrum, con le sue violenze, i suoi stupri, i suoi bimbi piangenti, il suo sangue versato, le sue drammatiche migrazioni, il suo “tempo sperperato”, mentre purtroppo “giace assonnata la vecchia Europa / dinanzi al video”.
Solo la “gaiezza di libertà e poesia” potrà ridonarci il sole, per “non cancellare questi / fiochi granelli di speranza”. Ancorati alla memoria, ritroveremo la luce, quella del mare blu di Ulisse.
Recentemente, nella sua prefazione all’antologia La poesia nel diluvio dell’epoca. Versi di Cristanziano Serricchio (Foggia, Sentieri Meridiani, 2010), Daniele Maria Pegorari mette al centro della poesia del nostro poeta “l’immagine del mare”, nella “fusione di due ‘cicli’ mitici – uno greco, l’altro biblico – incentrati sul mare come grembo fagocitante e insieme ricompositivo” (p. 5). Questa interpretazione mi vede totalmente d’accordo, ma io la riconduco alla mediterraneità della poesia di Serrichio, alla sua visione sulla linea di una internazionalità appena nascosta, che lo inserisce in un dialogo ideale di parola incentrato sui miti del grande Bacino.
Diomede diventa “la giusta mediazione fra l’oltranza di Ulisse e la pietas di Noè” (p. 13-14), il simbolo di una storia simbolica di tante storie del Mediterraneo, dalle origini ai nostri tempi, rinsaldando l’unione circolare storica della poesia di Serricchio. Tutta una rete di personaggi mediterranei si affaccia, oltre Ulisse e Noè, “nel gran fiume delle parole”: Saffo, Narciso, Giacobbe, Adamo, Ettore, Polifemo, Gesù, i Re Magi, Orfeo, Euridice, nel suono del libeccio che scalda mare, terra e cuori.
C’è dunque in Serricchio una religiosità di ordine mediterraneo, una devozione che mai mette da parte la libertà della parola, in una sensibilità musicale che molto sa dell’affabulazione dei cantastorie e delle favole d’infanzia, “per nuove rotte e nuove lingue”, sotto l’egida di una tematica pregnante della poesia del Mare Nostrum, quella del “dolore dell’esilio”. In questo contesto affabulatorio si inserisce l’amore di Serricchio per la parlata della sua città, Manfredonia, con poemi tra i più belli del Mezzogiorno in dialetto, in cui egli va alla ricerca della parola d’origine.
Come allora non inserire il ruolo del personaggio di Delia nel tempo mediterraneo? Non so se Serricchio abbia studiato a fondo la figura femminile nella storia del Mediterraneo, ma è certo che Delia appare il simbolo della donna di un’area in cui essa ha un grande ruolo sociale, religioso e culturale, al di là degli stereotipi che pure inondano le analisi di questo tipo.
Esiste un grande je femminile nel Mediterraneo, sia nel mondo arabo-musulmano, sia in quello cristiano, il quale ha prodotto una ricca letteratura specifica nel corso del XX secolo e in questo inizio del XXI. Questo je, che in Serricchio è un tu, nel dialogo immaginario con la sua donna – poco importa che sia defunta, ma qui si innesterebbe tutto un discorso sull’al di là di ordine greco-romano –, si tinge di perennità femminile, di amore per la donna e la sua storia, di stendhaliana e rimbaldiana proposta di ridare alla donna il suo giusto ruolo nella società.
Nell’amore per Delia, si incrociano rotte di leggende, filosofia, teologia e pensiero, in una parola di culture mediterranee che risalgono alla notte dei tempi. “Io vado errando nel silenzio”, annota Serricchio in Il tempo per dirti. Piccolo canzoniere per Delia, nell’ “ebbrezza del mare e del vento”. Delia è amante, compagna, sorella e soprattutto madre, quella madre che è il segno di una grande civiltà mediterranea e del viaggio dalla e alla morte-vita.
Serricchio rivela: “Mi hanno insegnato fin da bambino / che il sole nasce a oriente e ad occidente / tramonta”. E’ un po’ lo spazio mediterraneo della sua poesia. La “finestra del tempo” ci introduce “nella quiete luce delle parole” della donna, luce della vita.
Serricchio ha “sognato che la poesia era morta”, ma solo per riaffermarne la grande lezione e la responsabilità che le affida il nostro tempo di dolori. Egli riafferma che “La vita è abisso di luce”, un po’ come Giacomo Leopardi, Charles Baudelaire, Stéphane Mallarmé e Yves Bonnefoy, indicandoci così la via de seguire, per ritrovare la luce.
La poesia di Serricchio è il progetto di un nuovo umanesimo, con al centro l’individuo, tra mare e cielo, terra e sogno, mare e madre (in francese non per caso mer /mère).
Il Mediterraneo ritorna con la forza della sua valenza, della sua proposta di arte della vita, come aveva affermato Albert Camus, nell’apologia dell’amore e del dialogo con l’altro, parlando di pensée de midi.
Ha ragione Stéphane Mallarmé: “Soltanto i poeti hanno il diritto di parlare; perché, prima di tutto, sanno”. E Serricchio è uno che sa, dando al lettore una “fenomenologia dell’anima” (Gaston Bachelard), con la sua lettura della parola mediterranea, tra passato lontanissimo e giorni che viviamo, giorno dopo giorno, con la mente sulla rotta del futuro.


Università degli Studi di Bari Aldo Moro, 28 gennaio 2012





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