La dialettica fra scultura e piano che sovrasta, affianca o sostiene l’opera ha contraddistinto il linguaggio di Nunzio sin dagli esordi. Le istallazioni dei primi anni ‘80, realizzate in gesso dipinto per immersione, erano concepite per essere collocate a parete in quanto “sculture che […] negano la forza di gravità pur non nascondendo la sostanza fisica”, come afferma Giuliano Briganti nel catalogo della personale all’Attico, a Roma nel 1984.
Se già allora la scelta dei materiali rispondeva all’intenzione di assegnare ai volumi precise valenze cromatiche e luministiche, la predilezione per una tridimensionalità schiacciata di matrice donatelliana nonché l’uso del colore, finalizzato a segnare un nuovo approccio nel superamento del tradizionale rapporto con la pittura, ritornano costantemente anche in epoca successiva.
Nel 1986 Nunzio inizia a intervenire sul legno con cera, pece, carbone, pigmenti o piombo, presentando il frutto di questa sua nuova ricerca alla XLII Biennale di Venezia nella sezione “Aperto 86”, quando vince il Premio 2000 quale migliore artista. Dopo di allora numerose sono le tappe di un percorso segnato dall’impulso di sperimentare tecniche diverse: del legno l’artista rinnega l’intrinseca piacevolezza, sottoponendolo a combustione per conferire ad esso una profonda colorazione nera; sceglie il piombo per la sua duttilità e per la peculiare caratteristica di assorbire e riflettere la luce; dei metalli predilige le ossidazioni, testimonianza di un vissuto che ne viola la purezza e la perfezione primigenia.
Nell’ambito di una ricerca che nel corso dei decenni si riconferma alquanto variegata per ricchezza di soluzioni, il disegno non viene mai concepito come studio preliminare o collaterale alla scultura. Al contrario nel linguaggio di Nunzio ha sempre rivestito un ruolo del tutto autonomo e comprimario rispetto alla sua tradizionale indagine sui materiali.
In passato solo due furono le mostre interamente incentrate su questa particolare forma di espressione artistica. La prima fu la personale Confini tenutasi nel 1991 alla Galleria dell’Oca a Roma, accompagnata in catalogo un testo di Ersi Sotiropoulos, che riuniva lavori in cui sagome dai contorni nitidi si alternavano ad altre evanescenti, campite ora a carbone ora con interventi a pastello. La seconda fu l’esposizione del 2006, itinerante negli Istituti Italiani di Cultura a Los Angeles, San Francisco e Vancouver, in cui la dimensione fuori scala e l’accostamento inusuale di grandi fogli dai diversi formati creavano singolari effetti di illusione ottica, come se i larghi tracciati neri potessero dilatarsi e proseguire oltre i limiti del supporto cartaceo.
Con un inedito progetto interamente rivolto proprio all’opera su carta la Galleria dello Scudo torna ora a dedicare una mostra all’artista, a sei anni di distanza dalla personale Ombre allestita nell’inverno 2005-2006, curata da Lea Vergine e accompagnata in catalogo da un’intervista di Hans Ulrich Obrist. Negli spazi della Galleria, dal 10 dicembre 2011, sarà proposto un nucleo di lavori recenti in cui per la prima volta Nunzio concepisce l’intervento grafico in stretta simbiosi con la scultura. Volumi tridimensionali in materiali diversi si disporranno sulla carta divenendo, insieme ai tracciati e alle partiture nere campite a carbone, parte integrante dello stesso componimento.
La rassegna si apre con alcune opere del 2005, in parte già esposte nella personale di Nunzio allestita alla Galleria dello Scudo nello stesso anno, a segnare l’intento di tracciare una linea di continuità tra le sperimentazioni di allora e quanto realizzato in seguito.
Del 2006 è la carta di quasi tre metri di lunghezza, già presente nella rassegna itinerante negli Stati Uniti, in cui l’artista ripartisce la composizione in una fitta tassellatura. Le scansioni ortogonali addensate nella parte superiore della composizione riprendono la struttura tipica delle pedane lignee su cui l’artista è solito disporre le sue installazioni in legno combusto. La griglia non si attiene a una prevedibile scansione ortogonale ma sembra a scivolare verso il basso, generando un senso di straniamento dovuto all’equilibrio in apparenza precario del disegno.
In un’opera di due anni dopo la verticalità dei segni sembra alludere a una selva di sottili aste annerite dal fuoco calate dall’alto, unite da un’ampia fascia che prelude alle larghe campiture nere che connotano i lavori successivi.
Si giunge quindi agli esiti più recenti, che sul piano stilistico testimoniano un’evoluzione ulteriore rispetto al passato, azzerando l’uso dello sfumato e definendo con maggiore nitidezza i contorni. Le ampie forme geometriche enfatizzano un processo di sintesi formale imperniato sulla dilatazione e sull’addensarsi delle campiture. L’immagine viene ora messa a nudo, scarnificata, concentrata in nuclei più compatti, meno imperniata sulla traccia o sull’idea di fuga prospettica suggerita dalla linea curva e dal ricorso a zone d’ombra.
Alcune opere sono integrate da elementi in legno bruciato, a ribadire la volontà di azzerare qualsiasi distanza fra scultura e superficie bidimensionale. Imprimere un segno sulla carta o realizzare un oggetto possono quindi coincidere in un’azione comune in cui si annulla ogni rapporto di alterità. In questo gioco di contrapposizioni l’intervento grafico accoglie la forma tridimensionale e la trasforma in elemento funzionale alla struttura definita sulla carta. In altri lavori lame di piombo, ricoperte da uno strato di carbone o di vernice scura, appaiono incise in modo tale da lasciar intravedere il metallo sottostante, come graffiti nati per sottrazione e non per applicazione di materia.
La carta, dunque, sempre di qualità pregiata e di considerevole consistenza, è la vera protagonista dell’esposizione, prediletta da Nunzio per le particolari valenze tonali e per l’intrinseca piacevolezza alla vista e al tatto. Nel disporsi in successione sulle pareti della galleria, darà corpo a una sequenza di spartiti monocromi, scanditi da volumi estroflessi o incisi, da cui prende vita una sinfonia accordata su accenti imperiosi. Grandi fogli bianchi accolgono il carbone e lo assorbono quasi a inglobarlo nella loro stessa materia, partecipi entrambi di una comune origine naturale: dal legno bruciato deriva il carbone, così come dal legno trae origine la carta. Larghe campiture di un nero profondo si aprono come finestre su un oscuro inconoscibile, come costante metafora delle forti contrapposizioni (luce-ombra, bianco-nero, giorno-notte) su cui si fonda la ricerca dell’artista.
Info:
Se già allora la scelta dei materiali rispondeva all’intenzione di assegnare ai volumi precise valenze cromatiche e luministiche, la predilezione per una tridimensionalità schiacciata di matrice donatelliana nonché l’uso del colore, finalizzato a segnare un nuovo approccio nel superamento del tradizionale rapporto con la pittura, ritornano costantemente anche in epoca successiva.
Nel 1986 Nunzio inizia a intervenire sul legno con cera, pece, carbone, pigmenti o piombo, presentando il frutto di questa sua nuova ricerca alla XLII Biennale di Venezia nella sezione “Aperto 86”, quando vince il Premio 2000 quale migliore artista. Dopo di allora numerose sono le tappe di un percorso segnato dall’impulso di sperimentare tecniche diverse: del legno l’artista rinnega l’intrinseca piacevolezza, sottoponendolo a combustione per conferire ad esso una profonda colorazione nera; sceglie il piombo per la sua duttilità e per la peculiare caratteristica di assorbire e riflettere la luce; dei metalli predilige le ossidazioni, testimonianza di un vissuto che ne viola la purezza e la perfezione primigenia.
Nell’ambito di una ricerca che nel corso dei decenni si riconferma alquanto variegata per ricchezza di soluzioni, il disegno non viene mai concepito come studio preliminare o collaterale alla scultura. Al contrario nel linguaggio di Nunzio ha sempre rivestito un ruolo del tutto autonomo e comprimario rispetto alla sua tradizionale indagine sui materiali.
In passato solo due furono le mostre interamente incentrate su questa particolare forma di espressione artistica. La prima fu la personale Confini tenutasi nel 1991 alla Galleria dell’Oca a Roma, accompagnata in catalogo un testo di Ersi Sotiropoulos, che riuniva lavori in cui sagome dai contorni nitidi si alternavano ad altre evanescenti, campite ora a carbone ora con interventi a pastello. La seconda fu l’esposizione del 2006, itinerante negli Istituti Italiani di Cultura a Los Angeles, San Francisco e Vancouver, in cui la dimensione fuori scala e l’accostamento inusuale di grandi fogli dai diversi formati creavano singolari effetti di illusione ottica, come se i larghi tracciati neri potessero dilatarsi e proseguire oltre i limiti del supporto cartaceo.
Con un inedito progetto interamente rivolto proprio all’opera su carta la Galleria dello Scudo torna ora a dedicare una mostra all’artista, a sei anni di distanza dalla personale Ombre allestita nell’inverno 2005-2006, curata da Lea Vergine e accompagnata in catalogo da un’intervista di Hans Ulrich Obrist. Negli spazi della Galleria, dal 10 dicembre 2011, sarà proposto un nucleo di lavori recenti in cui per la prima volta Nunzio concepisce l’intervento grafico in stretta simbiosi con la scultura. Volumi tridimensionali in materiali diversi si disporranno sulla carta divenendo, insieme ai tracciati e alle partiture nere campite a carbone, parte integrante dello stesso componimento.
La rassegna si apre con alcune opere del 2005, in parte già esposte nella personale di Nunzio allestita alla Galleria dello Scudo nello stesso anno, a segnare l’intento di tracciare una linea di continuità tra le sperimentazioni di allora e quanto realizzato in seguito.
Del 2006 è la carta di quasi tre metri di lunghezza, già presente nella rassegna itinerante negli Stati Uniti, in cui l’artista ripartisce la composizione in una fitta tassellatura. Le scansioni ortogonali addensate nella parte superiore della composizione riprendono la struttura tipica delle pedane lignee su cui l’artista è solito disporre le sue installazioni in legno combusto. La griglia non si attiene a una prevedibile scansione ortogonale ma sembra a scivolare verso il basso, generando un senso di straniamento dovuto all’equilibrio in apparenza precario del disegno.
In un’opera di due anni dopo la verticalità dei segni sembra alludere a una selva di sottili aste annerite dal fuoco calate dall’alto, unite da un’ampia fascia che prelude alle larghe campiture nere che connotano i lavori successivi.
Si giunge quindi agli esiti più recenti, che sul piano stilistico testimoniano un’evoluzione ulteriore rispetto al passato, azzerando l’uso dello sfumato e definendo con maggiore nitidezza i contorni. Le ampie forme geometriche enfatizzano un processo di sintesi formale imperniato sulla dilatazione e sull’addensarsi delle campiture. L’immagine viene ora messa a nudo, scarnificata, concentrata in nuclei più compatti, meno imperniata sulla traccia o sull’idea di fuga prospettica suggerita dalla linea curva e dal ricorso a zone d’ombra.
Alcune opere sono integrate da elementi in legno bruciato, a ribadire la volontà di azzerare qualsiasi distanza fra scultura e superficie bidimensionale. Imprimere un segno sulla carta o realizzare un oggetto possono quindi coincidere in un’azione comune in cui si annulla ogni rapporto di alterità. In questo gioco di contrapposizioni l’intervento grafico accoglie la forma tridimensionale e la trasforma in elemento funzionale alla struttura definita sulla carta. In altri lavori lame di piombo, ricoperte da uno strato di carbone o di vernice scura, appaiono incise in modo tale da lasciar intravedere il metallo sottostante, come graffiti nati per sottrazione e non per applicazione di materia.
La carta, dunque, sempre di qualità pregiata e di considerevole consistenza, è la vera protagonista dell’esposizione, prediletta da Nunzio per le particolari valenze tonali e per l’intrinseca piacevolezza alla vista e al tatto. Nel disporsi in successione sulle pareti della galleria, darà corpo a una sequenza di spartiti monocromi, scanditi da volumi estroflessi o incisi, da cui prende vita una sinfonia accordata su accenti imperiosi. Grandi fogli bianchi accolgono il carbone e lo assorbono quasi a inglobarlo nella loro stessa materia, partecipi entrambi di una comune origine naturale: dal legno bruciato deriva il carbone, così come dal legno trae origine la carta. Larghe campiture di un nero profondo si aprono come finestre su un oscuro inconoscibile, come costante metafora delle forti contrapposizioni (luce-ombra, bianco-nero, giorno-notte) su cui si fonda la ricerca dell’artista.
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