Sulle tracce del Sacro: CRISTIANO DE GAETANO - GIULIO DE MITRI - GIUSEPPE SPAGNULO
a cura di Roberto Lacarbonara
MISTERIUM FESTIVAL MUDI - MUSEO DIOCESANO DI ARTE SACRA TARANTO
dal 12 aprile al 10 maggio 2014
La memoria è Spirito, manifestazione perenne ed essenziale dell’esistenza, presenza che oltrepassa se stessa e sfocia nell’eterno.
Con la presenza di tre noti artisti tarantini, Cristiano De Gaetano, Giulio De Mitri, Giuseppe Spagnulo, appartenenti a generazioni, formazioni e linguaggi artistici differenti, si terrà al MUDI – Museo Diocesano di Arte Sacra di Taranto – nell’ambito di Mysterium Festival, La Settimana Santa a Taranto tra Fede, Arte, Storia, Tradizione e Cultura – sabato 12 aprile ore 11,00 l’inaugurazione della mostra di arte contemporanea Sulle tracce del Sacro , una ricerca volta ad attraversare il mistero della spiritualità, interrogare il sacro, porre la questione della relazione tra uomo e trascendenza.
L’arte, ed il suo processo di conoscenza sensibile che avvicina l’umano alle più alte manifestazioni della bellezza e del creato, rappresenta uno strumento fondamentale per attingere alla radicale indicibilità della
vita, per mostrarne luminosità e zone d’ombra, per esibire il tragitto di coscienza e consapevolezza con cui
l’uomo indaga su se stesso.
Il pensiero del sacro attraversa l’opera d’arte contemporanea attraverso atti di veemente, ostinata “sacrificazione”. Rimettere la realtà al sacro e al contempo recidere l’umano dal divino attraverso un atto sacrificale, ad una prima osservazione sembra riportare alla mente le forme iconoclaste e le manifestazioni di insidiosa blasfemia realizzate da numerosi artisti che operano nel nostro tempo. Tuttavia questo “sacrificio” che intendiamo inseguire in occasione della mostra “Sulle tracce del Sacro” appartiene ad una differente e più profonda autenticità ovvero a un radicale confronto tra il Soggetto e la Trascendenza al di fuori di ognin “pro-vocazione” linguistica.
È ancora possibile parlare di arte sacra? In quali termini e funzioni?
La ragione di adottare un tale paradigma per illustrare le scelte dei tre artisti in mostra (non certo con l’ambizione di una rappresentatività di “categoria”, bensì con compiuti riferimenti agli universi simbolici implicati) sta nella natura fortemente “antimessianica” del rapporto tra umano e divino. L’artista insomma sembra testimoniare a più riprese l’impossibilità di una testimonianza, un cedimento della parola o un’usura del linguaggio. Operando all’interno di una concezione plotiniana, riferita alla teologia negativa, De Gaetano, De Mitri e Spagnulo esibiscono il sacrificio di dio stesso: una vera e propria sottrazione del dio dal reale al fine di riattualizzarne l’avvento.
Prima di avvicinarci ai singoli lavori presentati in mostra (nelle tre teche di cristallo che accolgono circolarmente lo sguardo e che depositano l’opera come “reliqua-resto” di una traccia che – stando all’allegoria religiosa – conduce ben oltre il confinamento del corpo-opera), è opportuno soffermarsi sull’operazione complessiva qui condotta, a pochi passi dalle tele settecentesche, dai paramenti sacri e dai documenti religiosi ospitati dal Museo Diocesano di Taranto. Si tratta di una proposta che ragiona, per molti versi, mutuando simbolismi e citazioni della classicità figurativa ma evidenziando il profondo “svuotamento” dei termini espressivi.
Ogni opera infatti allude ad una sorta di messianicità spoglia, indigente, affidata a una debole promessa - non per questo meno esigente, meno pressante o urgente – di un “messianismo” desolante. Tracce del sacro, dunque, che si perdono nella stessa direzione in cui conducono: non v’è null’altro che l’opera oltre l’opera, alcuna ierofania, alcuna manifestazione del dio. Tuttavia è esattamente questa assenza di presupposti, questa fede-non-necessitata a rendere possibile l’attesa, l’aspettativa, la sacralità come spazio sacro, assoluto, che impone rispettosa osservanza. Questa attesa di un messia minuscolo ed impersonale è paradossalmente ancora più (pre)potente del Verbo e della Imago sacra di arte antica: essa è “semplicemente” attesa, kenosis, svuotamento dello spazio a favore di un alterità assoluta, mai narrata originale, straniera. “L’arrivante deve essere assolutamente altro, un altro che mi attendo di non attendere, che non attendo, la cui attesa è fatta di una non-attesa”1. Questo sacro sacrificante che penetra il nostro tempo è esattamente un termine che non salva, non edifica bensì dimora nell’angoscia del non-dicibile, di uno sbarramento del Verbo.
Le opere
L’opera di Cristiano De Gaetano è una maschera mortuaria che dice terribilmente il peso del suo stesso calco, del suo negativo. Laddove in passato la maschera mortuaria riferiva l’impressione diretta del volto del defunto attraverso il posizionamento dell’argilla sulla faccia prima del rito funebre, l’opera inquietante del giovane artista tarantino scomparso nel 2013 è una radicalizzazione dell’inversione simbolica della rappresentazione. Non più opera d’arte come consacrazione memoriale del corpo all’eterno, bensì
opera come manifestazione del transeunte al vivente, figurazione ungarettiana di una vita che sconta, sulla propria pelle, la fine, il morire. La scultura di De Gaetano è un gesto plastico: plasma il volto con rapidi accenni, consegna la terracotta smaltata di bianco alla cottura senza insistere sul lavorìo figurativo bensì raffermando, nell’opera, la precarietà del gesto, della creazione stessa. Persino l’atto dell’artista è un rito sacrificale: più volte De Gaetano ha operato sulla propria effigie (sia in pittura che in scultura) attraverso una rappresentazione sepolcrale.
Va detto, inoltre, che la stessa presenza di Cristiano in questa mostra, ad un anno dalla scomparsa, è per tutti un’occasione per dialettizzare l’intera sua arte e biografia, fatta di slanci esistenzialisti e di ironie compositive al limite dello scherno ossessivo (si pensi all’estremo realismo dei ritratti in plastilina). Una presenza che racconta il sacro attraverso la “dissacralità” ovvero la sfrontata ricerca dell’escatologia nel quotidiano, nel vivere, anzi, nel rischio di vivere.
Se De Gaetano esplora la condizione corporale e carnale del soggetto di fronte al sacro, Giuseppe Spagnulo ragiona sui termini della “Relazione”, delle facoltà dell’uomo di dire l’eterno e di reificarne, nella scrittura come nell’opera d’arte, la sua presenza. Anche in questo caso, tuttavia, si tratta di una impossibile testimonianza: il libro in acciaio è la ferita nel linguaggio, l’improvvisa apertura di una crepa nella continuità del reale, è pura “estimità”. Secondo la suggestione del pensatore e psicanalista francese Jacques Lacan, il pensiero stesso dell’individuo è abitato da tale estimità ovvero da un’esteriorità opaca che eccede ogni tentativo di padronanza e di trasparenza. Qui sono le profonde scissioni della storia e del soggetto, lacerazioni che si manifestano come sconfinamento dell’Uno oltre i propri confini. L’orizzonte di finitezza a partire dal quale ogni alterità si offre all’Uomo è immediatamente scisso, si traduce in una frattura senza negoziazione giacché è il grande “Libro” – la Scrittura, ovvero la possibilità di recare memoria – ad essere calcificato nel suo squarcio e nella sua illeggibilità. Non solo quindi un messianesimo irrisolto e silente ma anche intraducibile e irrappresentabile: la possibilità di dire il sacro, oggi, è una possibilità sterile, un sacrificio che ripropone se stesso quale totem della propria indicibilità.
Vi è poi, in ultimo, un momento espressivo di profonda rivelazione e lucida sintesi. È l’opera di Giulio De Mitri, “Genesi”. La scultura ovoidale attesta la complessa simbologia di riferimento dell’opera; la perfezione formale e la morfogenesi ancestrale della vita riferiscono l’essenziale totalità che ogni cosa comprende e raduna. Vi sono però due elementi di silenziosa ambiguità con cui l’artista sembra voler confrontarsi nel concepimento di questo intervento.
Il ricorso ad una superficie lucida e specchiante ribalta subito l’esercizio spirituale di un luogo concavo e totalizzante in una superficie convessa e spazializzante. Nell’opera, difatti, ci si rispecchia, nel suo azzurro abissale e astrale si conserva l’immagine di sé, di colui che osserva, di colui che si avvicina al mistero della creazione e della vita. È l’umano che – ancora una volta – rende sacro il sacro, agisce per “sacrificare” e continuare la ricerca di sé oltre se stesso.
Ulteriore metafora dell’apertura simbolica dell’opera è costituita dalla presenza, in apice, di un punto luminoso (un led azzurro). L’uovo nella teca risulta in questo modo opera universale e primitiva, fondativa del sapere e della bellezza. Si tratta di un riferimento che travalica la stessa tradizione culturale cristiana e accede alla mistica orientale: quando Brahma si racchiude nell’Uovo del Mondo (Brahmanda), egli forma il germe primordiale della vita cosmica, chiamato “Hiranyagarbha”, un nome che letteralmente significa “Germe d’oro”. In un passo dei Rig Veda (il “Libro dei Versi”, uno dei quattro Veda), si afferma in proposito: “In un’oscurità profonda, come abisso tenebroso senza luce, il Germe che dormiva ancora nel suo involucro d’oro esplose, come unico essere, per il calore ardente”.
Ecco dunque il compimento della rivelazione. È esattamente la luce, materia inconsistente ma generativa, immateriale ma rivelativa, a coniugare la forte enigmaticità dei lavori esposti. I materiali e le icone così opportunamente offerte in reliquia all’osservatore cristallizzano una luce che, se da un lato insegue l’oscuro del mistero per manifestare il proprio corpo, dall’altro imprime di sé le superfici del visibile. La stessa luce che fuoriesce dall’uovo primigenio di De Mitri, che dimora nel candore freddo degli smalti di De Gaetano e degli acciai di Spagnulo. La stessa luce che sottrae il sacro all’altare e lo consegna alla carne, all’umano e alla terra.
Roberto Lacarbonara
Con la presenza di tre noti artisti tarantini, Cristiano De Gaetano, Giulio De Mitri, Giuseppe Spagnulo, appartenenti a generazioni, formazioni e linguaggi artistici differenti, si terrà al MUDI – Museo Diocesano di Arte Sacra di Taranto – nell’ambito di Mysterium Festival, La Settimana Santa a Taranto tra Fede, Arte, Storia, Tradizione e Cultura – sabato 12 aprile ore 11,00 l’inaugurazione della mostra di arte contemporanea Sulle tracce del Sacro , una ricerca volta ad attraversare il mistero della spiritualità, interrogare il sacro, porre la questione della relazione tra uomo e trascendenza.
L’arte, ed il suo processo di conoscenza sensibile che avvicina l’umano alle più alte manifestazioni della bellezza e del creato, rappresenta uno strumento fondamentale per attingere alla radicale indicibilità della
vita, per mostrarne luminosità e zone d’ombra, per esibire il tragitto di coscienza e consapevolezza con cui
l’uomo indaga su se stesso.
Il pensiero del sacro attraversa l’opera d’arte contemporanea attraverso atti di veemente, ostinata “sacrificazione”. Rimettere la realtà al sacro e al contempo recidere l’umano dal divino attraverso un atto sacrificale, ad una prima osservazione sembra riportare alla mente le forme iconoclaste e le manifestazioni di insidiosa blasfemia realizzate da numerosi artisti che operano nel nostro tempo. Tuttavia questo “sacrificio” che intendiamo inseguire in occasione della mostra “Sulle tracce del Sacro” appartiene ad una differente e più profonda autenticità ovvero a un radicale confronto tra il Soggetto e la Trascendenza al di fuori di ognin “pro-vocazione” linguistica.
È ancora possibile parlare di arte sacra? In quali termini e funzioni?
La ragione di adottare un tale paradigma per illustrare le scelte dei tre artisti in mostra (non certo con l’ambizione di una rappresentatività di “categoria”, bensì con compiuti riferimenti agli universi simbolici implicati) sta nella natura fortemente “antimessianica” del rapporto tra umano e divino. L’artista insomma sembra testimoniare a più riprese l’impossibilità di una testimonianza, un cedimento della parola o un’usura del linguaggio. Operando all’interno di una concezione plotiniana, riferita alla teologia negativa, De Gaetano, De Mitri e Spagnulo esibiscono il sacrificio di dio stesso: una vera e propria sottrazione del dio dal reale al fine di riattualizzarne l’avvento.
Prima di avvicinarci ai singoli lavori presentati in mostra (nelle tre teche di cristallo che accolgono circolarmente lo sguardo e che depositano l’opera come “reliqua-resto” di una traccia che – stando all’allegoria religiosa – conduce ben oltre il confinamento del corpo-opera), è opportuno soffermarsi sull’operazione complessiva qui condotta, a pochi passi dalle tele settecentesche, dai paramenti sacri e dai documenti religiosi ospitati dal Museo Diocesano di Taranto. Si tratta di una proposta che ragiona, per molti versi, mutuando simbolismi e citazioni della classicità figurativa ma evidenziando il profondo “svuotamento” dei termini espressivi.
Ogni opera infatti allude ad una sorta di messianicità spoglia, indigente, affidata a una debole promessa - non per questo meno esigente, meno pressante o urgente – di un “messianismo” desolante. Tracce del sacro, dunque, che si perdono nella stessa direzione in cui conducono: non v’è null’altro che l’opera oltre l’opera, alcuna ierofania, alcuna manifestazione del dio. Tuttavia è esattamente questa assenza di presupposti, questa fede-non-necessitata a rendere possibile l’attesa, l’aspettativa, la sacralità come spazio sacro, assoluto, che impone rispettosa osservanza. Questa attesa di un messia minuscolo ed impersonale è paradossalmente ancora più (pre)potente del Verbo e della Imago sacra di arte antica: essa è “semplicemente” attesa, kenosis, svuotamento dello spazio a favore di un alterità assoluta, mai narrata originale, straniera. “L’arrivante deve essere assolutamente altro, un altro che mi attendo di non attendere, che non attendo, la cui attesa è fatta di una non-attesa”1. Questo sacro sacrificante che penetra il nostro tempo è esattamente un termine che non salva, non edifica bensì dimora nell’angoscia del non-dicibile, di uno sbarramento del Verbo.
Le opere
L’opera di Cristiano De Gaetano è una maschera mortuaria che dice terribilmente il peso del suo stesso calco, del suo negativo. Laddove in passato la maschera mortuaria riferiva l’impressione diretta del volto del defunto attraverso il posizionamento dell’argilla sulla faccia prima del rito funebre, l’opera inquietante del giovane artista tarantino scomparso nel 2013 è una radicalizzazione dell’inversione simbolica della rappresentazione. Non più opera d’arte come consacrazione memoriale del corpo all’eterno, bensì
opera come manifestazione del transeunte al vivente, figurazione ungarettiana di una vita che sconta, sulla propria pelle, la fine, il morire. La scultura di De Gaetano è un gesto plastico: plasma il volto con rapidi accenni, consegna la terracotta smaltata di bianco alla cottura senza insistere sul lavorìo figurativo bensì raffermando, nell’opera, la precarietà del gesto, della creazione stessa. Persino l’atto dell’artista è un rito sacrificale: più volte De Gaetano ha operato sulla propria effigie (sia in pittura che in scultura) attraverso una rappresentazione sepolcrale.
Va detto, inoltre, che la stessa presenza di Cristiano in questa mostra, ad un anno dalla scomparsa, è per tutti un’occasione per dialettizzare l’intera sua arte e biografia, fatta di slanci esistenzialisti e di ironie compositive al limite dello scherno ossessivo (si pensi all’estremo realismo dei ritratti in plastilina). Una presenza che racconta il sacro attraverso la “dissacralità” ovvero la sfrontata ricerca dell’escatologia nel quotidiano, nel vivere, anzi, nel rischio di vivere.
Se De Gaetano esplora la condizione corporale e carnale del soggetto di fronte al sacro, Giuseppe Spagnulo ragiona sui termini della “Relazione”, delle facoltà dell’uomo di dire l’eterno e di reificarne, nella scrittura come nell’opera d’arte, la sua presenza. Anche in questo caso, tuttavia, si tratta di una impossibile testimonianza: il libro in acciaio è la ferita nel linguaggio, l’improvvisa apertura di una crepa nella continuità del reale, è pura “estimità”. Secondo la suggestione del pensatore e psicanalista francese Jacques Lacan, il pensiero stesso dell’individuo è abitato da tale estimità ovvero da un’esteriorità opaca che eccede ogni tentativo di padronanza e di trasparenza. Qui sono le profonde scissioni della storia e del soggetto, lacerazioni che si manifestano come sconfinamento dell’Uno oltre i propri confini. L’orizzonte di finitezza a partire dal quale ogni alterità si offre all’Uomo è immediatamente scisso, si traduce in una frattura senza negoziazione giacché è il grande “Libro” – la Scrittura, ovvero la possibilità di recare memoria – ad essere calcificato nel suo squarcio e nella sua illeggibilità. Non solo quindi un messianesimo irrisolto e silente ma anche intraducibile e irrappresentabile: la possibilità di dire il sacro, oggi, è una possibilità sterile, un sacrificio che ripropone se stesso quale totem della propria indicibilità.
Vi è poi, in ultimo, un momento espressivo di profonda rivelazione e lucida sintesi. È l’opera di Giulio De Mitri, “Genesi”. La scultura ovoidale attesta la complessa simbologia di riferimento dell’opera; la perfezione formale e la morfogenesi ancestrale della vita riferiscono l’essenziale totalità che ogni cosa comprende e raduna. Vi sono però due elementi di silenziosa ambiguità con cui l’artista sembra voler confrontarsi nel concepimento di questo intervento.
Il ricorso ad una superficie lucida e specchiante ribalta subito l’esercizio spirituale di un luogo concavo e totalizzante in una superficie convessa e spazializzante. Nell’opera, difatti, ci si rispecchia, nel suo azzurro abissale e astrale si conserva l’immagine di sé, di colui che osserva, di colui che si avvicina al mistero della creazione e della vita. È l’umano che – ancora una volta – rende sacro il sacro, agisce per “sacrificare” e continuare la ricerca di sé oltre se stesso.
Ulteriore metafora dell’apertura simbolica dell’opera è costituita dalla presenza, in apice, di un punto luminoso (un led azzurro). L’uovo nella teca risulta in questo modo opera universale e primitiva, fondativa del sapere e della bellezza. Si tratta di un riferimento che travalica la stessa tradizione culturale cristiana e accede alla mistica orientale: quando Brahma si racchiude nell’Uovo del Mondo (Brahmanda), egli forma il germe primordiale della vita cosmica, chiamato “Hiranyagarbha”, un nome che letteralmente significa “Germe d’oro”. In un passo dei Rig Veda (il “Libro dei Versi”, uno dei quattro Veda), si afferma in proposito: “In un’oscurità profonda, come abisso tenebroso senza luce, il Germe che dormiva ancora nel suo involucro d’oro esplose, come unico essere, per il calore ardente”.
Ecco dunque il compimento della rivelazione. È esattamente la luce, materia inconsistente ma generativa, immateriale ma rivelativa, a coniugare la forte enigmaticità dei lavori esposti. I materiali e le icone così opportunamente offerte in reliquia all’osservatore cristallizzano una luce che, se da un lato insegue l’oscuro del mistero per manifestare il proprio corpo, dall’altro imprime di sé le superfici del visibile. La stessa luce che fuoriesce dall’uovo primigenio di De Mitri, che dimora nel candore freddo degli smalti di De Gaetano e degli acciai di Spagnulo. La stessa luce che sottrae il sacro all’altare e lo consegna alla carne, all’umano e alla terra.
Roberto Lacarbonara
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amalia di Lanno