Elettroshock, la memoria al negativo
"La vertigine è qualcosa di diverso
voce del vuoto sotto di noi che ci attira,
che ci alletta, è il desiderio di cadere,
dal quale ci difendiamo con paura".
Milan Kundera,
L'insostenibile
leggerezza dell'essere.
Si racconta che in vecchiaia, dopo un ictus, Ardengo Soffici un giorno si sia visto allo specchio e abbia mormorato: "Che schifo". Il giorno dopo era morto. Forse era passato dall'altra parte dello specchio. Perché lo sguardo di un artista vive nel discrimine tra la vita e il suo opposto; tra il qui e ora e il dappertutto e in nessun posto. L'artista ha negli occhi la morte e celebra, in qualche modo, la vita. Fulvio Leoncini dipinge la follia. Non solo questa, di essere artista, ma anche quella "vera", di chi soffre rinchiuso e nascosto nella propria mente. Dipinge i sogni, i desideri; dipinge le assenze, i fantasmi della storia e della memoria.
Fin dalle sue prime esperienze espositive, è stato chiaro che l'artista si stava radicando in una sorta di denuncia esistenziale avendo chiaro che il nostro tempo è, non solo per la sua opera, un involucro che tutto contiene e annulla. Dunque, negli anni ha trasportato ogni storia in un corpo e ha dato un corpo ad ogni storia: possibile che in lui resista l'illusione di salvare qualcosa o qualcuno con una presa di coscienza univoca, attraverso una pittura di contenuto che contiene pittura?
Per questo, merita leggere con attenzione la serie di opere "Elettrochock", creata dopo la visita di Leoncini all'antico ospedale psichiatrico di Volterra (1888 - 1978) che custodisce ancora le tracce di esistenze tormentate, e, a parte, i documenti, le attrezzature e il corpo epistolare dei degenti (lettere conservate nelle cartelle cliniche e mai spedite). In quest'operazione, l'artista perde la "giusta distanza", ovvero il ruolo di osservatore, e precipita, appunto, in un vortice di dolore dal quale si può riemergere solo con un atto creativo. Dipingere, quindi, rivendicare all'arte le sofferenze umane che finora erano state relegate alla cronaca, alla storia minore.
L' impianto della pittura di Leoncini, che potrebbe dirsi informale, conduce a un unico esito espressivo le due direttrici principali su cui si è sempre svolto il suo lavoro: figura e materia. Tuttavia, il quadro non si disperde in accumuli di colori-materia, è fittamente elaborato secondo un ductus espressivo che ha radici proprio nel lavoro giovanile dell'artista, nel suo segno che fluttuava alla ricerca del corpo dell'immagine, creando embrioni di figure in inquieta relazione con lo spazio. Adesso la parola scritta diventa segno, traccia, e il segno è una lacerazione, e la figura un'ombra, una memoria di vita. I dipinti di Leoncini sono storie senza descrizioni, come arrivate al cuore del non detto. Una sensibilità schiva, la sua, che si esprime in trame grafiche dal ritmo controllato, mai uguale; uno stupore quasi timido che sollecita accensioni di luce, bianco-nero, come di una lampada che oscilla nel vuoto a scacciare, a tratti, il buio di una stanza. Da un particolare rivelato, da un accordo afferrato in fuga, Leoncini tende a ordire una pagina fatta di richiami, somiglianze non spente, non dimenticate nel loro valore di spunto e, in definitiva, di tema. Poiché proprio la presenza del tema, al fondo di ogni variazione, sostiene l'intero intreccio del quadro. I suoi "Santi senza nome" sono immagini che sembrano scaturire dal fondo stesso del dipinto, come nelle antiche fotografie che pretendevano di ritrarre fenomeni paranormali. Ma se le memorie mute, le storie taciute, i dolori nascosti, generano fantasmi, allora queste sono le tracce di spiriti anonimi sofferenti, gli stessi in cui ogni vivente può riconoscersi. Tematica suscitatrice di fantasmi baudelairiani, più che contemplazione di partiture armoniche.
Osservando oggettivamente le sue composizioni, e come lui tratta la materia sezionandola in segni duri e in rari, acuti, espressivi lampeggiamenti di colore, che sembrano avvinghiarsi a un'idea centrale rivelata, si schiude un paradigma di simboli-segni e di simboli-luci che danno appiglio al pensiero, portandolo là dove Leoncini voleva condurlo: le sue tavole hanno allora il valore di una figura, e ciò che egli rappresenta non è l'espressione lamentosa o soffocante del dramma, ma il dramma stesso, preso a sé, come strappato dal resto delle sensazioni. Questo effetto straniante, simile a un'azione del "Teatro nero", si deve alla robusta ossatura figurativa di Leoncini. L'artista non poteva arrivare a sonorità così profonde senza aver prima sperimentato il mondo della realtà esterna, esteriore, e la figurazione. Decenni di ricerca figurativa stanno a sostegno (forse a spiegazione) di questo divenire all' attuale espressione, che si rifà ai climi figurativi, poiché le dominanti di Leoncini sono sempre derivate da un sottofondo psicologico aperto al dramma e da una natura schiva, sensibile alle ore malinconiche della nostra vita.
«Ora prendete il telescopio e misurate le distanze e guardate fra me e voi chi è il più pericoloso», queste le parole, mai riferite agli originali destinatari, contenute in una lettera di un uomo che era stato chiuso nel manicomio di Volterra dai parenti, senza che egli soffrisse di una particolare patologia. La frase diventa dunque emblematica di ogni rapporto di potere, di prevaricazione: esprime l' ambiguità di una realtà rovesciata. Allo stesso modo, i dipinti di Leoncini non gridano, ma accolgono il grido; non raccontano, ma mostrano; il segno non contiene, ma viene contenuto. E la memoria, quella, è una memoria che non ricorda niente, ma che resta, perché qualcuno ne nota il vuoto e decide di raccontarla, magari su tavole rese come intonaco calcinato e ossidato, complessi di spessori e scrostature, allucinati con squarci di bianchi aggrumati. Per Leoncini l'esistenza è un muro, che raccoglie graffi, ingiurie, scritte, ma anche momenti di dolcezza, di fantasticherie astratte che servono a dare un senso all'insensato. La pittura è un muro, un corpo sostanziato di equivalenze organiche e plastiche, mentali e materiali.
Se dovessimo avvicinare la qualità di pensiero che è alla base dell'opera di Leoncini, alle suggestioni letterarie, sentiremmo la scossa mentale scatenata da Artaud, ma più probabilmente ci troveremmo di fronte alla crisi senza riscatto, la desolazione del tempo di Bianciardi, per restare a un' epoca e un luogo che gli si confanno.
Certo, alla fine l'artista lavora su pochi temi, ma dalle mille facce: il dolore, la pietà (pietas), la compassione, l'esercizio del potere, l'alienazione, la passione, la carne e l'anima (che certo non è quella di cattolica configurazione), ma lo fa attingendo all'accumulo di visioni, segni-simboli, sentimenti maturati con l'esperienza, elaborati nel tormento personale. Leoncini non cerca l'effetto, non mostra compiacimenti stilistici, se non l'indimenticato orgoglio di padroneggiare figura e composizione. Per lui, non è questione di seguire una scuola, una tendenza o un'ideologia: è in gioco l'esistenza che si fa pittura, l'unico modo per manifestare la propria inequivocabile presenza nell'arte.
In questo nostro tempo assistiamo spesso al rapido, quasi camaleontico, aggiornamento degli artisti alle forme espressive più seguite. Un fenomeno legato al mercato, quando c'è, o, più genericamente alla civiltà del consumo, e che poco ha a che vedere con un reale e meditato interesse della critica. Anche il linguaggio dell'arte perde la sua concretezza che sta nell'ancoramento all'esperienza individuale. Ma esiste un'altra, più appartata e sofferta, forma di ricerca, aperta alle suggestioni della cultura attuale e non provinciale. È il modo di procedere scelto da artisti che interpretano le proposte stilistiche contemporanee attraverso il loro autentico mondo esistenziale e poetico, senza snaturarsi, senza estraniarsi dalla loro realtà individuale. Credo che Fulvio Leoncini appartenga a questa autentica e onesta categoria di pittori.
Nicola Nuti
Firenze, luglio 2013
ricevo e pubblico:
amalia di Lanno