NOTA di GIORGIO BARBERI SQUAROTTI: <<... mi piace moltissimo il Suo nuovo "cantico dei cantici" moderno e prezioso, elegante e gioioso, favoloso e vitale. I nomi sono quelli orientali,
ma ritmo e immagini sono quelli d'oggi come lezioni di bellezza e di grazia e di speranza. Splendide sono anche le altre poesie, quelle della seconda parte per la pienezza delle esperienze, delle descrizioni, delle visioni, dei sogni.
(da una lettera del 5 giugno 2011 ad Antonietta Benagiano)
Non
esiste una satira più tremenda della libertà di pensiero.
Un tempo non si poteva osare di pensare liberamente;
ora ciò è permesso, ma non è più possibile.
Si può pensare soltanto ciò che si deve volere,
e proprio questo viene percepito come libertà.
Un tempo non si poteva osare di pensare liberamente;
ora ciò è permesso, ma non è più possibile.
Si può pensare soltanto ciò che si deve volere,
e proprio questo viene percepito come libertà.
Oswald Spengler
L’epigrafe da Pierre Reverdy (En vrac) in esergo al nuovo libro di
Antonietta Benagiano illumina prima
hodierna luce (per dirla livianamente[1])
codesta raccolta di versi: «Le poesie
sono cristalli che sedimentano / dopo l’effervescente contatto dello spirito
con la realtà». L’autrice pugliese chiarisce subito, con la veemente
acribia intellettuale che sempre l’ha contraddistinta, il tema attorno al quale
scorrono, articolandosi in diversi Leitmotiv,
le sue poesie, talora leggere come ruscelli azzurri di montagna, talaltra
impetuose come gorgoglianti fiumi in piena: se il lettore cercherà «parole aulenti di erotici fremiti o di
qualsivoglia sentimentalismo, oppure delle mai abbandonate derive simboliste,
metta pure da parte codesto libro capitatogli forse per caso tra le mani.
Sgorga qui il verso dallo stupefacente infinito problematico dell’esistenza,
dal mistero del non conosciuto o non conoscibile, dalla piccolezza del nostro
pianeta, degli esseri umani spesso insipienza per meschinità e crudeltà, per
sinapsi di follia, solo talora palpito di comunione».
Si tratta di una poesia nutrita
culturalmente dagli autori di riferimento della poetessa: da Robert Maciver a
Theodor Geiger a Joseph Stiglitz. Ma sono forse certe parole dello Zygmunt
Bauman di Paura liquida a soccorrerci più di tutte nel descrivere la
rete ideativa che sottende codesto avvincente volume: «La fiducia si trova in difficoltà nel momento in cui ci
rendiamo conto che il male si può nascondere ovunque; che esso non è
distinguibile in mezzo alla folla, non ha segni particolari né usa carta
d'identità; e che chiunque potrebbe trovarsi a essere reclutato per la sua
causa, in servizio effettivo, in congedo temporaneo o potenzialmente
arruolabile»[2].
«Le reti di legami umani, un tempo radure ben protette e isolate nella giungla
[...], si trasformano in zone di frontiera in cui occorre ingaggiare
interminabili scontri quotidiani per il riconoscimento. [...] Complessivamente
i rapporti cessano di essere àmbiti di certezza, tranquillità e benessere
spirituale, per diventare una fonte prolifica di ansie»[3]. «La
guerra moderna alle paure umane, sia essa rivolta contro i disastri di
origine naturale o artificiale, sembra avere come esito la redistribuzione
sociale delle paure, anziché la loro riduzione quantitativa»[4]. «La
comprensione nasce dalla capacità di gestire.
Ciò che non siamo in grado di gestire ci è “ignoto”; e l'”ignoto” fa paura. La
paura è un altro nome che diamo al nostro
essere senza difese»[5]. «La
generazione meglio equipaggiata tecnologicamente di tutta la storia umana è
anche la generazione afflitta come nessun'altra da sensazioni di insicurezza e
di impotenza»[6].
È la poesia,
quella della scrittrice tarantina, dei sopravvissuti all’ultima guerra per la
vita ancóra in corso, in attesa trepidante della catastrofe ormai imminente. «Meno
uno e sono sopravvissuto», ripete la poetessa in una raggelante cantilena
mortuaria, un solitario peana per la fine del mondo:
E sospira il mondo allo spegnersi del dì
meno uno e sono
sopravvissuto
E più avanti, in Noi:
siamo noi effimeri granelli insipienti
d’un’infinitesima parte di
quest’universo bolla
da deformata bolla dell’Universo Padre
filiazione.
Infatti, scrive il
sociologo e filosofo polacco, «I pericoli che temiamo più sono immediati e
dunque è comprensibile che desideriamo rimedi anch'essi immediati: soluzioni “bell'e
pronte” che diano sollievo sul momento, analgesici acquistabili anche senza
prescrizioni mediche. [...] ci infastidiscono le soluzioni che ci chiedano di
prestare attenzione ai nostri difetti e misfatti, che ci impongano –
socraticamente – di “conoscere noi stessi”»[7]. «La
vera guerra al terrorismo – che può essere
vinta – non si conduce devastando ulteriormente le città e i villaggi
semidistrutti dell'Iraq o dell'Afghanistan, ma cancellando i debiti dei Paesi
poveri, aprendo i nostri ricchi mercati ai prodotti di base di questi paesi,
finanziando l'istruzione per i 115 milioni di bambini attualmente privi di
qualsiasi accesso alla scuola e conquistando, deliberando e attuando altri
provvedimenti simili»[8]. «Chi
è insicuro tende a cercare
febbrilmente un bersaglio su cui scaricare l'ansia accumulata e a ristabilire
la perduta fiducia in sé stesso cercando di placare quel senso di impotenza che
è offensivo, spaventoso e umiliante»[9].
Così
gli orrori della guerra senza fine e senza luogo nella danza menata dai
‘signori della guerra’ americani e la paura della ‘violenza metropolitana’
della Asphalt Jungle di hustoniana
memoria[10]
trovano una traduzione poetica nei versi di Antonietta così come ce li hanno
raccontati recentemente Bauman:
Retorica
epitaffi
consunti
dai vellutati scranni nessuno s’alza
azioni non sono le parole
ed è il corpo per il martirio.
dai vellutati scranni nessuno s’alza
azioni non sono le parole
ed è il corpo per il martirio.
Corpi compaiono
martoriati ricompaiono
flash e ancora flash sulla sfigurata materia umana
e l'occhio diviene assuefazione.
flash e ancora flash sulla sfigurata materia umana
e l'occhio diviene assuefazione.
A loro difesa non
s'arma l’umanità indifferenti
saranno altri corpi martoriati.
saranno altri corpi martoriati.
«Come un circolo
vizioso, la minaccia terroristica si trasforma in ispirazione per un nuovo terrorismo,
disseminando sulla propria strada quantità sempre maggiori di terrore e masse
sempre più vaste di gente terrorizzata»[11]. «Come
un capitale liquido, pronto per ogni genere di investimento, il capitale della
paura può essere – ed è – trasformato in qualsiasi genere di profitto,
commerciale o politico»[12]. «La
paura c'è e satura quotidianamente l'esistenza umana, mentre la deregulation planetaria
penetra fin nelle sue fondamenta e i baluardi difensivi della società civile
cadono in pezzi»[13].
Groviera il bel
pianeta
le civiltà
occidentale e orientale
stessa sorte aborigeni e tecnologici superstiti
rimpianto eguale il colore della vita.
le civiltà
occidentale e orientale
stessa sorte aborigeni e tecnologici superstiti
rimpianto eguale il colore della vita.
E sì che, come dice
il sociologo, «Possiamo profetizzare che, a meno di essere imbrigliata e
addomesticata, la nostra globalizzazione negativa, che oscilla tra il togliere la
sicurezza a chi è libero e offrire sicurezza sotto forma di illibertà, renderà
la catastrofe ineluttabile. Se non si formula questa profezia, e se
non la si prende sul serio, l'umanità ha poche speranza di renderla evitabile.
L'unico modo davvero promettente di iniziare una terapia contro la crescente
paura che finisce per renderci invalidi è reciderne le radici: poiché l'unico
modo davvero promettente di continuarla richiede che si affronti il compito di
recidere quelle radici. Il secolo che viene può essere un'epoca di catastrofe
definitiva. O può essere un'epoca in cui si stringerà e si darà vita a un nuovo
patto tra intellettuali e popolo, inteso ormai come umanità. Speriamo di poter
ancora scegliere tra questi due futuri»[14].
A lèggere Nelle macerie ritornano le parole
dell’explicit eliotiano della Waste Land:
Ruderi...
sulla storia
t’assidi
fra l'ante e il post il muro poni.
fra l'ante e il post il muro poni.
Rullano altrove
tamburi assordano violenti
dopo il dolore c'è pace qui
sulle macerie
piove luce
inebria
e una fresia gialla col suo profumo speranza innaffia.
dopo il dolore c'è pace qui
sulle macerie
piove luce
inebria
e una fresia gialla col suo profumo speranza innaffia.
Nel micro vince
ancora la vita
e nel macro.
e nel macro.
Come negli ultimi dieci versi del mitico poema epocale, della moderna Commedía
della modernità al Tramonto dell’Occidente[15], dove
«the nymphs are departed», insieme «ai loro amici, gli eredi bighelloni dei
direttori di banca della city; /
partiti senza lasciare indirizzo»[16]:
I sat upon the shore
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Fishing, with the arid plain behind me
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Shall I at least set my lands in order?
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London Bridge is falling down falling down
falling down
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Poi s’ascose nel foco che gli affina
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Quando fiam ceu chelidon — O swallow swallow
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Le Prince d’Aquitaine à la tour abolie
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These fragments I have shored against my ruins
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Why then Ile fit you. Hieronymo’s mad againe.
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Datta. Dayadhvam. Damyata.
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Shantih shantih shantih
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Sì, «Geronimo
è pazzo di nuovo», gli antichi ritmi circadiani del mondo ed il succedersi
millenario delle stagioni e dei tempi è stato infranto, lacerato, bruttato,
violato per sempre, a dirla pasolinianamente[17],
mente ‘il deserto avanza’[18]
nel mondo diventato un enorme ‘mercato-fogna a cielo aperto’:
Pure le pulci al
banco
e tecnocrati e
pragmatici e toghe senza lustro illustri
e d’immagine
accattoni di parola e strilloni
e corrotti d’ora
prima e seconda
dal nord al sud
già pronti tutti con bisacce ampie
tra vincenti e
perdenti tacito accordo.
Gran folla al
mercato profittatori a schiere
ciascun
l’insegna a maggior lucro sceglie
e sfila intanto
gran folla d’affamati inerme
e lacrima la
sbrindellata Italia.
È un rimare guittoniano, dal sentire morale risentito, dalle «rime
aspre e chiocce»[19],
che non di rado ricerca schoenberghiane dissonanze foniche e timbriche, striduli
ossimori, infernali metafore e metonimie, incalzanti sineddochi, in un engagement
comunque ‘anti-conviviano’, laddove la poetessa è fuggita «de la pastura del
vulgo»[20]
per spiegare aristocraticamente multa paucis. Ciò non toglie però che la
sostanza più profonda di questa poesia resti comunque lirica e sentimentale: è
il dolore leopardiano del poeta che ci propone l’altro versante dell’analisi
del mondo, quello delle emozioni turbate e della bellezza ferita.
È una Weltanschauung,
quella della poetessa di Massafra, che mira a una conoscenza e a una denuncia
della realtà mediante lo strumento della poesia: ovvero l’intuizione, la
percezione immediata e immaginosa, l’espressione iconico-verbale petrosa
attraverso un universo di poesia che racconti, con accenti accorati – talora
sommessi, talaltra rabbiosi – la deriva inesorabile del mondo, la fiamma di
un’antica civiltà che nell’inciviltà ed in un esiodeo ritorno al cháos primigenio
sta spegnendo – sotto la guida impersonale e imperscrutabile dei fati – per
sempre se stessa.
Roberto Pasanisi
[1] Titi Livi, Ab
Urbe Condita Libri, I, 16: «Fuisse credo tum quoque aliquos qui discerptum
regem patrum manibus taciti arguerent; manauit enim haec quoque sed perobscura
fama; illam alteram admiratio uiri et pauor praesens nobilitauit. Et consilio
etiam unius hominis addita rei dicitur fides. Namque Proculus Iulius, sollicita
ciuitate desiderio regis et infensa patribus, grauis, ut traditur, quamuis
magnae rei auctor in contionem prodit. “Romulus”, inquit, “Quirites, parens
urbis huius, prima hodierna luce caelo repente delapsus se mihi obuium dedit”».
[2] ZYGMUNT
BAUMAN, Paura
liquida, Bari, Laterza, 2009, p. 86.
[3] Ibidem, p. 88.
[4] Ibidem, p. 102.
[5] Ibidem, p. 119.
[6] Ibidem, p. 126.
[7] Ibidem, pp. 142-143.
[8] Ibidem, p. 137.
[9] Ibidem, p. 153.
[10] JOHN HUSTON,
The Asphalt Jungle (Stati Uniti,
1950), con
uno Sterling Hayden al culmine del glamour
e del carisma filmico.
[11] Ibidem, p. 154.
[12] Ibidem, p. 180.
[13] Ibidem, p. 190.
[14] Ibidem, p. 220.
[15] OSWALD SPENGLER, Der Untergang des
Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der
Weltgeschichte, 2 voll., Wien 1918; München 1922;
traduzione italiana O. Spengler, Il Tramonto dell'Occidente. Lineamenti di
una Morfologia di una Storia Mondiale,
trad. di J. Evola, introduzione di S. Zecchi, nuova edizione a cura di
Calabresi Conte, Cottone, Jesi, Guanda, Parma, 1995.
[16] «The
river’s tent is broken: the last fingers of leaf / Clutch and sink into the wet
bank. The wind / Crosses the brown land, unheard. The nymphs are departed. /
Sweet Thames, run softly, till I end my song. / The river bears no empty
bottles, sandwich papers, / Silk handkerchiefs, cardboard boxes, cigarette ends
/ Or other testimony of summer nights. The nymphs are departed. / And their
friends, the loitering heirs of city directors; / Departed, have left no
addresses» (Thomas Stearns Eliot, The
Waste Land, New York, W.W. Norton, 2001, III: The Fire Sermon, vv.
173-181).
[17] «Non
c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e
repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista
e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con
dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è
stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano;
il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione
(specie, appunto la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata,
violata, bruttata per sempre…» (Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Milano,
Epoca!, 1988 [1975], p. 24).
[18] Metafora nietzscheana e poi
severiniana, in uno con la questione del ‘dominio della tecnica’ (del filosofo
bresciano cfr., in particolare, Emanuele Severino,
Il destino della tecnica, Milano, Rizzoli, 1998; Natalino Irti – Emanuele Severino, Dialogo su diritto e tecnica,
Bari, Laterza, 2001; Emanuele Severino, Téchne. Le radici della
violenza, Milano, Rizzoli, 2002; e Id.,
Il nulla e la poesia. Alla fine dell'età della
tecnica: Leopardi, Milano, Rizzoli, 2005).
[19] Inf., XXXII, 1.
[20]
«E io adunque, che non seggio a la beata mensa, ma,
fuggito de la pastura del vulgo, a’ piedi di coloro che seggiono ricolgo di
quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m’ho
lasciati, per la dolcezza ch’io sento in quello che a poco a poco ricolgo,
misericordievolmente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho
riservata, la quale a li occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò
li ho fatti maggiormente vogliosi» (Convivio,
I, 1, 10).
pubblica:
Massimo Nardi