mercoledì 4 settembre 2013

TRANSITI

Artisti in mostra:
Nicola BIONDANI, Liliana CECCHIN, Ekaterina SMIRNOVA

Orari: Martedì - Venerdì: 15.00-19.00
Sabato: 10.00-13.00 e 15.00-19.00
Domenica 22 e 29 Settembre: 15.00-19.00
Altre domeniche e tutte le mattine su appuntamento

La Galleria resterà chiusa da lunedì 7 a lunedì 14 Ottobre per partecipazione ad ARTVERONA.

Transiti. Viaggi intesi come spostamenti nello spazio, naturalmente, ma anche viaggi fuori e dentro l’uomo. Viaggi come scoperta del mondo, e poi, soprattutto, come riscoperta del sé. Occasioni per ritrovarsi e trasformarsi, per comprendersi meglio e per crescere. Come dice Ekaterina Smirnova, amazzone siberiana trapiantata a Brooklyn. Per lei viaggiare significa soprattutto libertà: non avere confini. Ma anche vedere nuovi volti, sentire nuovi suoni, nuovi odori e attraverso questi creare dentro di sé una memoria rinnovata, più complessa, capace di cambiarti. Per i suoi acquerelli grandi, ipnotici, profondamente atmosferici ha scelto come soggetti proprio le mete dei suoi viaggi: Salisburgo con le sue nebbie leggere e fatate, Pechino su cui aleggia perennemente una patina di foschia, Miami benedetta da piogge tiepide e pesanti come lacrime, New York, con le cime dei grattacieli celate dalle nuvole. E poi Novosibirsk, naturalmente – la città dove è nata – con i suoi venti diversi tipi di neve. Quando viaggia, Ekaterina ha sempre con sé macchina fotografica e acquerelli. E i suoi scorci nascono quasi sempre da un’emozione, da un appunto preso sul posto, anche se la tecnica elaborata e le dimensioni dei lavori richiedono un lungo completamento in studio. Ha eletto a suo mezzo l’acquerello perché è quello che rende in maniera più fedele il suo elemento preferito: l’acqua, sia essa nebbia, neve, pioggia o foschia. Lo ha trasformato, lo ha reso materico e ruvido, lo ha domato e al tempo stesso si è fatta domare, rispettosa di quella che a un certo punto, durante la realizzazione del lavoro, si manifesta come la volontà propria del materiale e che lei, obbediente, asseconda. I risultati sono paesaggi ai limiti dell’astratto, colti nelle brume dell’alba o nelle ombre del crepuscolo. Immagini alle quali è possibile dare una collocazione geografica spesso solo grazie al titolo o alla scelta di immettervi un elemento tipico e riconoscibile di un dato luogo. In realtà potrebbero essere l’archetipo della metropoli, emblemi di un pianeta ormai scandito dai grandi agglomerati urbani. E poi ci sono le strade. Arterie di asfalto grigio perse nella nebbia fino all’orizzonte, sulle quali baluginano, fioche come apparizioni, le luci delle auto, le sagome stanche dei mezzi pesanti, le silhouette dei cartelli stradali.

Negli oli su tela di Liliana Cecchin il punto di vista si ravvicina. I transiti, ora, si svolgono all’interno di uno spazio più limitato. Non più il mondo, ma la metropoli. E protagonista ora è la folla metropolitana che per le strade, nelle stazioni, alle fermate dei mezzi pubblici si muove in sciami compatti, composto da elementi apparentemente coordinati ma in realtà totalmente ignari l’uno dell’altro. Viaggiatori capaci di percorrere spalla contro spalla chilometri di cunicoli sotterranei su un vagone della metropolitana, ognuno ignaro dei pensieri dell’altro, dei bisogni dell’altro, del viso dell’altro. Dell’esistenza stessa dell’altro. Un isolamento dell’anima e un fuggire del corpo raccontati in movimenti quasi danzanti, che sulla tela si esplicitano in un elegante sdoppiamento, in un vibrare dei dettagli come accadeva con le vecchie macchine fotografiche analogiche quando si programmava una lunga apertura dell’obiettivo. Un transitare senza porre la mente al viaggio ma – anzi – rimuovendolo come un ostacolo, rifiutandolo come un non-tempo e un non-vissuto, che si sostanzia in ampie inquadrature precipitanti dove i soggetti, spesso quasi solo ombre o sagome, offrono le spalle perché già oltre, già passati. Qualche volta, come se la macchina fotografica avesse scattato troppo tardi, dei soggetti restano solo le gambe, i piedi. Il resto è vuoto, assenza, ampi spazi di pavimento che l’artista colma di una luce abbagliante, assoluta come una rivelazione.

Infine eccoli, i viaggiatori. Immobili – forse solo per un attimo – nelle terrecotte patinate di Nicola Biondani. Scultore antico e potente, l’artista riesce a infondere ai suoi personaggi modernissimi (fino alla foggia del piumino da neve del quale si potrebbe azzardare di indovinare la marca) la monumentalità della statuaria classica. Seduti sui bauli forse nell’attesa del prossimo treno, armati di valigie, sono colti in un momento di statica perplessità, istante fuggevole e prezioso in cui lo sguardo si perde inseguendo un pensiero mentre il corpo, sazio e stanco, si abbandona. La materia liscia e lucente, dalla consistenza similissima al bronzo, si accende di decorazioni chiare che danno all’insieme un’inaspettata leggiadria o di leggere pennellate rosse come fiammate a sottolineare un dettaglio cruciale. Interessante anche la scelta del piedistallo, che può avere la forma di un piccolo sgabello di paglia o quella leggera di un perno sottile, dove la scultura è infilata “a baionetta” con la possibilità di ruotare a 360 gradi. Capace di regalare alla terracotta una vitalità morbida e palpitante, Biondani comunica attraverso i suoi personaggi un sottile senso di disagio squisitamente contemporaneo. E così pare di cogliere, nell’espressione sottilmente interrogativa di Me ne vado come nel gesto appena accennato di In bermuda, un senso di esitazione, di disillusione. Quasi di inutilità. Come a dire: dopo un lungo peregrinare sono arrivato fin qui. Ma tutto questo, alla fine, a che cosa è servito?

ALESSANDRA REDAELLI

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Amalia di Lanno