OFF GALLERY PROJECT by ART and ARS Gallery.
Due Mostre personali al Palazzo della Cultura di Galatina, "Un analgesico per l’emicrania, una coppia di dadi e le mie pantofole blu sono tutto ciò di cui adesso ho bisogno" di FABRIZIO FONTANA e "Pietro Cavoti" di Sandro Marasco. La prima nelle sale del P.Art la seconda all'iterno del Museo Pietro Cavoti. Entrambe le Mostre sono curate da Lorenzo Madaro.
Un analgesico per l’emicrania, una coppia di dadi e le mie pantofole blu sono tutto ciò di cui adesso ho bisogno. Parola di Fabrizio Fontana
Ha recuperato un approccio prettamente pittorico Fabrizio Fontana per queste sue opere recenti. L’ha fatto tenendo conto di diversi e articolati piani della narrazione, che sono anzitutto dei dialoghi a più voci con se stesso, perché chiariscono propensioni, desideri, sogni delle sue varie età, mixate tra loro senza soluzione di continuità. Anche – ma questo è un leitmotiv nel suo percorso visuale – con una inclinazione profondamente ironica, che guarda alla citazione come territorio da esplorare con agilità, come un cammino da prefigurare con stato d’animo goliardico. Musica, scrittura, ritualità del quotidiano, oggetti-feticcio: tutto va recuperato dalla mente, dalle azioni, anche quelle della monotonia del reale, per farle diventare icona, immagine destinata alla prima persona singolare, come una sorta di diario. Ma naturalmente anche il pubblico è invitato a partecipare, a godere della bidimensionalità apparente del quadro, per sorridere, riflettere, storcere magari il naso, condividere una memoria, ispirare un flashback. Tra serio e faceto, come in Devo fare luce su un paio di cose… a proposito di luce devo ancora pagare la bolletta, un dipinto di piccolo formato in cui la poetica propensione verso un universo “altro” – esemplificata da una scala che s’inerpica nell’infinito – è considerata nel suo valore beffardo, che mira a strappare un sorriso scanzonato allo spettatore, a ridicolizzare le smanie pseudo-spiritualistiche della vita di ognuno di noi. Chi non conosce l’itinerario artistico di Fontana potrebbe leggere questi dipinti – una lunga serie, probabilmente ancora in progress – presentati in mostra a Galatina come testimonianze per certi versi accattivanti, accondiscendenti. Si portano invece dietro una lunga riflessione attorno ai temi caldi del gioco, del doppio gioco, dei giochi di parole, dell’uso della parola scritta e parlata per denominare un’opera, sia essa un quadro o un’installazione, com’è stato con il suo Giganteschio. C’è poi un’attenzione verso lo slancio edonista della pittura, come ad esempio in Due rette si incontrano all’infinito e una volta lì non hanno più un cazzo da dirsi, in cui due tele verticali sovrapposte sono anche un pretesto per adoperare grandi campiture di colore, distese sul supporto con una noncuranza voluta. La superficie è così il luogo del dialogo tra due fasce di cromìe in cui si muovono altrettante sagome umanoidi – una femminile, l’altra maschile – che intraprendono la stessa direzione, in parallelo, appunto. Appartengono a una grande famiglia – stando alle loro sembianze – che si ritrovano in altri dipinti della produzione recente, come in Sono fuori per lavoro per lavoro sono fuori, How many roads must a man walk down before you call him a man e Di buon braccio di buon viso di cattivo jioko. Potrebbero ricordare – ma non è detto che siano queste i riferimenti primari – le sagome bianco-nero dipinte da un protagonista delle vicende dell’arte italiana degli anni Sessanta, Renato Mambor; d’altronde Fontana non è nuovo al confronto con le iconografie dell’arte di diverse epoche, giacchè in passato ha spesso guardato a Andy Warhol o a un’icona celebre come la Gioconda, che ritorna anche in questo nuovo ciclo. Ma naturalmente Fontana la decontestualizza dal paesaggio leonardesco per farle vivere una dimensione altra, biffando perfino i tratti del suo volto con un segno veloce, mentre la protagonista assoluta dell’opera – che non a caso ha battezzato Jiokonda – è una donna della contemporaneità, che muove il suo corpo con orgoglio in una dimensione estatica, rigorosamente attorniata dalle reliquie del suo immaginario: le buste dello shopping. Va però chiarito che in questo nuovo ciclo presentato a Galatina non vi è un filo conduttore preciso, al suo interno si potrebbero riconoscere dei sottocicli, anche rispetto all’uso e all’abuso del colore e del segno. Ci sono i dipinti contrassegnati dai rossi accesi e quelli dai toni più cupi. Li unisce – oltre a una riflessione di fondo sul comportamento umano, le abitudini, i vizi e i luoghi comuni dell’essere – una demarcazione fisica, un confine evanescente dovuto alla patina resinosa che ricopre le superfici di tutte le opere. Le preserva dall’usura dello sguardo, rafforza alcuni aspetti prettamente pittorici, e nonostante i temi e gli accenti contemporanei dona all’insieme una patina atemporale e vitale.
Lorenzo Madaro
Segnala:
Amalia di Lanno
Due Mostre personali al Palazzo della Cultura di Galatina, "Un analgesico per l’emicrania, una coppia di dadi e le mie pantofole blu sono tutto ciò di cui adesso ho bisogno" di FABRIZIO FONTANA e "Pietro Cavoti" di Sandro Marasco. La prima nelle sale del P.Art la seconda all'iterno del Museo Pietro Cavoti. Entrambe le Mostre sono curate da Lorenzo Madaro.
Un analgesico per l’emicrania, una coppia di dadi e le mie pantofole blu sono tutto ciò di cui adesso ho bisogno. Parola di Fabrizio Fontana
Ha recuperato un approccio prettamente pittorico Fabrizio Fontana per queste sue opere recenti. L’ha fatto tenendo conto di diversi e articolati piani della narrazione, che sono anzitutto dei dialoghi a più voci con se stesso, perché chiariscono propensioni, desideri, sogni delle sue varie età, mixate tra loro senza soluzione di continuità. Anche – ma questo è un leitmotiv nel suo percorso visuale – con una inclinazione profondamente ironica, che guarda alla citazione come territorio da esplorare con agilità, come un cammino da prefigurare con stato d’animo goliardico. Musica, scrittura, ritualità del quotidiano, oggetti-feticcio: tutto va recuperato dalla mente, dalle azioni, anche quelle della monotonia del reale, per farle diventare icona, immagine destinata alla prima persona singolare, come una sorta di diario. Ma naturalmente anche il pubblico è invitato a partecipare, a godere della bidimensionalità apparente del quadro, per sorridere, riflettere, storcere magari il naso, condividere una memoria, ispirare un flashback. Tra serio e faceto, come in Devo fare luce su un paio di cose… a proposito di luce devo ancora pagare la bolletta, un dipinto di piccolo formato in cui la poetica propensione verso un universo “altro” – esemplificata da una scala che s’inerpica nell’infinito – è considerata nel suo valore beffardo, che mira a strappare un sorriso scanzonato allo spettatore, a ridicolizzare le smanie pseudo-spiritualistiche della vita di ognuno di noi. Chi non conosce l’itinerario artistico di Fontana potrebbe leggere questi dipinti – una lunga serie, probabilmente ancora in progress – presentati in mostra a Galatina come testimonianze per certi versi accattivanti, accondiscendenti. Si portano invece dietro una lunga riflessione attorno ai temi caldi del gioco, del doppio gioco, dei giochi di parole, dell’uso della parola scritta e parlata per denominare un’opera, sia essa un quadro o un’installazione, com’è stato con il suo Giganteschio. C’è poi un’attenzione verso lo slancio edonista della pittura, come ad esempio in Due rette si incontrano all’infinito e una volta lì non hanno più un cazzo da dirsi, in cui due tele verticali sovrapposte sono anche un pretesto per adoperare grandi campiture di colore, distese sul supporto con una noncuranza voluta. La superficie è così il luogo del dialogo tra due fasce di cromìe in cui si muovono altrettante sagome umanoidi – una femminile, l’altra maschile – che intraprendono la stessa direzione, in parallelo, appunto. Appartengono a una grande famiglia – stando alle loro sembianze – che si ritrovano in altri dipinti della produzione recente, come in Sono fuori per lavoro per lavoro sono fuori, How many roads must a man walk down before you call him a man e Di buon braccio di buon viso di cattivo jioko. Potrebbero ricordare – ma non è detto che siano queste i riferimenti primari – le sagome bianco-nero dipinte da un protagonista delle vicende dell’arte italiana degli anni Sessanta, Renato Mambor; d’altronde Fontana non è nuovo al confronto con le iconografie dell’arte di diverse epoche, giacchè in passato ha spesso guardato a Andy Warhol o a un’icona celebre come la Gioconda, che ritorna anche in questo nuovo ciclo. Ma naturalmente Fontana la decontestualizza dal paesaggio leonardesco per farle vivere una dimensione altra, biffando perfino i tratti del suo volto con un segno veloce, mentre la protagonista assoluta dell’opera – che non a caso ha battezzato Jiokonda – è una donna della contemporaneità, che muove il suo corpo con orgoglio in una dimensione estatica, rigorosamente attorniata dalle reliquie del suo immaginario: le buste dello shopping. Va però chiarito che in questo nuovo ciclo presentato a Galatina non vi è un filo conduttore preciso, al suo interno si potrebbero riconoscere dei sottocicli, anche rispetto all’uso e all’abuso del colore e del segno. Ci sono i dipinti contrassegnati dai rossi accesi e quelli dai toni più cupi. Li unisce – oltre a una riflessione di fondo sul comportamento umano, le abitudini, i vizi e i luoghi comuni dell’essere – una demarcazione fisica, un confine evanescente dovuto alla patina resinosa che ricopre le superfici di tutte le opere. Le preserva dall’usura dello sguardo, rafforza alcuni aspetti prettamente pittorici, e nonostante i temi e gli accenti contemporanei dona all’insieme una patina atemporale e vitale.
Lorenzo Madaro
Segnala:
Amalia di Lanno