Singolare protagonista outsider dell’arte italiana degli anni Sessanta-Settanta, Agnetti è considerato anche uno dei massimi esponenti dell’arte concettuale internazionale.
Artista visivo, poeta, scrittore, nasce a Milano il 14 settembre 1926. Diplomatosi all’Accademia di Belle Arti di Brera segue anche la Scuola del Piccolo Teatro di Milano diretta da Giorgio Strehler. Ancora giovanissimo inizia le prime esperienze di pittura informale e di poesia di cui tuttavia non restano tracce. “Quello che ho fatto – dichiarerà più tardi Agnetti – l’ho dimenticato a memoria: è questo il primo documento autentico”.
“Posizione paradossale quella che Vincenzo Agnetti assume nei confronti dell’arte – esordisce Italo Tomassoni nel suo saggio nel catalogo della mostra di Foligno – si serve della tautologia per dimostrare che se l’opera d’arte aumenta le sue potenzialità, diminuisce le sue possibilità di sopravvivere. Come dire che più l’arte si autodefinisce, più dilata la sua portata storica. Ma più dilata la sua portata storica, minori saranno le sue chances di entrare nella storia”. E ancora: “…Infatti, sul presupposto che le contraddizioni sono un “parametro stimolante” e la tautologia un “parametro convincente”, diversamente dagli artisti concettuali degli anni ’70 che da On Kawara a Joseph Kosuth fino ai logici di Art and Language puntavano sulla centralità dell’idea, Agnetti si preoccupa di rendere possibile un equilibrio tra supporto e superficie, lingua e parola, sincronia e diacronia, dimenticanza e scoperta. In altri termini punta a una verifica dei flussi che si irradiano dall’oggetto arte”.
“Egli ha prodotto – scrive Bruno Corà nel suo testo per il catalogo della mostra – luoghi vivi dell’immaginario e li ha codificati istantaneamente mediante uno statement, un materiale e una proposizione di complessa concezione spazio-temporale, la cui necessità d’assoluto ha richiesto una disponibilità di vocazione avventurosa e un’attitudine epistemologica aperta, se non analoga alla sua, almeno sicuramente non divagatoria”. E ancora: ” In tutta l’azione poetica di Agnetti il vuoto, il silenzio e l’oblio sono sempre latenti…Dimenticare, perdere, cancellare sono infiniti coniugati alle forme di volta in volta da lui concepite. E sono tutti predicati della memoria e del tempo, attore primario della drammaturgia agnettiana”.
Della proteiforme attività svolta da Agnetti restano le opere che, dal 1967 al 1981 – poco meno di quindici anni – l’artista ha realizzato: dipinti, sculture, azioni e scritti spesso dedicati anche all’opera di altri artisti amici, come Manzoni e Castellani, ma anche Melotti, Calderara, Arakawa, Girke, Prantl, Jochims e altri.
Tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta, partecipa alla vicenda della rivista d’arte Azimuth e dell’omonima galleria fondata da Piero Manzoni ed Enrico Castellani, coi quali stringe un sodalizio durato tutta la sua breve vita. Nel 1962 si reca in Sud America e risiede in Argentina sino al 1967, compiendo un’esperienza nel campo dell’automazione elettronica. Sosta poi a New York. Al rientro in Italia riprende i contatti con l’editore Vanni Scheiwiller, con cui aveva già collaborato nel 1958, scrivendo un testo critico poetico per le Tavole di accertamento di Piero Manzoni. E’ nel ’67, infatti, che Agnetti pubblica nelle edizioni Scheiwiller il suo romanzo-manifesto Obsoleto, con una copertina a rilievo realizzata da Enrico Castellani e nel contempo realizza la sua prima mostra personale presso il Palazzo dei Diamanti di Ferrara, dove espone Principia, una delle sue opere di ‘logica permutabile’. Con opere come queste prende corpo la problematica della relatività dei significati del linguaggio, dimostrando che se l’opera, con la forza della sua essenza visiva, comunica di per sé, tuttavia essa reca anche una sottostante valenza critico-epistemologica. A riprova di ciò, nel 1968, nel pieno della contestazione studentesca, espone la sua Macchina drogata, una calcolatrice Divisumma 14 Olivetti, i cui centodieci numeri vengono sostituiti da Agnetti con altrettante lettere dell’alfabeto, idonee piuttosto alia composizione e intonazione poetica che al calcolo.
Ma la Macchina drogata presente al CIAC nella mostra di Foligno non è che una delle circa cinquanta straordinarie opere esposte insieme ad alcuni altri capolavori come l’Apocalisse, 1970, il Libro dimenticato a memoria, 1970, gli Assiomi, 1969-70, su bachelite, i Feltri, pannelli incisi a fuoco e altre importanti opere, tra cui Surplace, 1979-80, quattro sculture e le Photo-Graffie, 1980, di poco precedenti la sua scomparsa.
Numerosi sono i viaggi compiuti da Agnetti in vari paesi tra cui quelli in Norvegia e nel Qatar, da cui invia una serie di lettere all’amico Scheiwiller, che saranno pubblicate postume nel 1981 e infine a New York, dove, sin dal 1975 apre uno studio e si confronta con la comunità artistica della città, attenta al suo lavoro teorico e artistico, osservandone l’opera presso la galleria di Ronald Feldman con cui egli collabora. Ma l’attitudine collaborativa con altri artisti della sua generazione è egualmente frequente al punto di realizzare opere insieme a Gianni Colombo (Vobulazione e bieloquenza), Paolo Scheggi (ll trono), Claudio Parmiggiani (Lo scriba), e altri.
Le opere di Agnetti presenti in numerose gallerie, collezioni private e musei di vari paesi del mondo sono state esposte numerose volte alia Biennale di Venezia.
Agnetti muore a Milano, improvvisamente, il 1° settembre 1981.
In occasione di questa importante esposizione di Foligno, viene pubblicato un esaustivo catalogo, comprendente i saggi critici dei curatori, un testo biografico redatto da Germana Agnetti, figlia dell’Artista, nonché numerose immagini delle opere, oltre agli apparati biobibliografici aggiornati.
La mostra di Agnetti resta aperta sino al 9 settembre.
Apertura e orari mostra: Venerdì, Sabato e Domenica 10.00-13.00 – 15,30-19.00
Ingresso: gratuito
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Fonte: www.tafter.it
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Amalia Di Lanno