mercoledì 1 febbraio 2023

Fou Rire


E se Il Matto parlasse…
“Lo sai che in qualunque momento si può verificare un cambiamento di coscienza, lo sai che all’improvviso puoi cambiare la percezione che hai di te stesso? A volte si crede che agire significhi avere successo rispetto a qualcun altro. Errore! Se vuoi agire nel mondo, devi far esplodere la percezione dell’io che ti è stata imposta, appiccicata addosso fin dall’infanzia, e che si rifiuta di cambiare. Devi ampliare i tuoi limiti all’infinito, senza posa. […]
Smetti di essere il testimone di te stesso, smettila di osservarti, sii attore allo stato puro, un’entità in azione. La tua memoria smetterà di registrare i fatti, le parole e i gesti che hai compiuto. Perderai la nozione del tempo. Fino a ora hai vissuto sull’isola della ragione trascurando le altre forze vive, le altre energie. Il paesaggio si allarga. Unisciti all’oceano dell’inconscio.
Allora sperimenterai uno stato di supercoscienza in cui non esistono fallimenti né incidenti. Non hai una concezione dello spazio, diventi spazio. Non hai una concezione del tempo: sei il fenomeno che arriva. In questo stato di presenza estrema, ogni gesto, ogni azione sono perfetti.


A. JODOROWSKY, La Via dei Tarocchi

Se, contestualmente alla mostra The Expanded Body (gennaio-marzo 2022), l’immagine guida scelta per il progetto era stata la carta dei tarocchi de “Il Mondo”, per il nuovo itinerario espositivo immaginato per la galleria 1/9unosunove l’emblema diventa quello de “Il Matto” (Le Mat o Le Fou), una carta le cui parole chiave sono – tra le altre – libertà, ricerca, forza liberatrice, irrazionale, caos. Per questo viene spesso associata alla creatività e idealmente rappresenta un complemento archetipico de “Il Mondo”, carta che indica il Tutto. Legato alla terra, in maniera viscerale, il Matto acquista su di sé una tensione e un’aspirazione costante verso Il Tutto, pur essendo ancora radicalmente vincolato a una dimensione terrena, di ordine pratico.
In The Expanded Body l’intento è stato quello di riassegnare alla corporeità una nuova centralità, non necessariamente legata alla presenza oggettiva del corpo e delle sue componenti. Con la mostra Fou Rire è ancora una volta il corpo ad essere attenzionato, stavolta nel suo legame inscindibile con la materia cerebrale e mentale (anche esplicitamente legata ai contenuti di memoria) che, quando entra in conflitto con il corpo, innesca delle dissimmetrie, delle crasi conflittuali che sottendono una continua ritrattazione di ciò che siamo rispetto a ciò che vorremmo essere. Nel confronto diretto con il desiderio, spinta all’azione e immobilismo si intersecano in una dinamica spesso senza fine.
Nella costante situazione di crisi delle società occidentali, ciò si rispecchia anche nel conflitto tra la spinta (spesso auto-imposta) all’iperproduttività e l’in-sofferenza di fondo che l’accompagna. Prendendo spunto dalla lettura che Alejandro Jodorowsky dà alla carta de “Il Matto”, la mostra intende sottolineare che l’elogio delle debolezze non debba essere necessariamente percepito come la giustificazione di un’apatia paralizzante, quanto piuttosto come motore di un’azione liberatrice. In questo modo, “Il Matto”, con il suo peregrinare, finisce per rappresentare una dimensione produttiva non lineare, in cui ogni tentativo è passibile di fallimento. L’in-sofferenza individuale, specchio di una dinamica sociale intrinseca a una certa impostazione lavorativa post-capitalista, diventa un innesco estetico dove anche l’inutilità, l’ironia e il divertimento non risultano veicolati da un algoritmo imposto dall’esterno.
Per questo motivo la mostra si apre con una storica poesia concreta di Mirella Bentivoglio (Klagenfurt, Austria, 1922 – Roma, 2017) che rappresenta, in forma di gabbia, la prima persona del verbo avere. La lettera O, rossa, con la sua autonomia iconica spicca sulle H nere (e, quindi, sulla struttura della gabbia) stando così a rappresentare un’alternativa, una possibilità di evasione che, a distanza di oltre cinquant’anni, si fa sempre più complessa. La pervasività immaginifica della contemporaneità ha portato a un’ipersensibilizzazione estetica in cui la persistenza retinica di immagini imposte (burn in: effetto di permanenza delle immagini su uno schermo) diventa il contraltare del burn out, sindrome derivata da una condizione di stress cronico e persistente.
Cosa resta dopo l’incendio nell’immagine, negli occhi, nel corpo e nella mente? E come far sì che il bruciare (to burn) assuma un carattere costruttivo? Dissimetrie e dicotomia burn in/burn out diventano le due matrici concettuali che nella mostra entrano in gioco per cercare di rispondere a queste domande.
Da un lato: l’assenza di simmetria che apre le porte a un’estetica del brutto – rimodulata da riflessioni di origine psicanalitica e filosofica, quando non apertamente linguistica – e a un ripensamento delle categorie del bello e del buono (la kalokagathia di antica memoria). Dall’altro: un conflitto tra immagine e esaurimento che conduce a un progressivo scollamento dal contesto, attraverso stati di stress cronico che possono degenerare nella perdita di attenzione e, dunque, alla deviazione dalla iper-performatività. Contestualmente alla sindrome in ambito lavorativo, il bruciare finisce per poter essere inteso come inconscia liberazione da una dinamica post-capitalistica, improntata all’eccezionalità di ogni singola soggettività.
In una tale condizione risulta fondamentale l’(auto-)ironia, capace di attivare l’elemento “risibile” della contemporaneità. La fantasia comica è propriamente umana e già per Henri Bergson, era fondamentale per comprendere i procedimenti che l’immaginazione segue nel suo lavoro. Questa immaginazione, sociale e collettiva, deriva dalla vita reale e s’imparenta con l’arte. Perché, come suggerisce Samuel Beckett in una sua breve poesia della serie mirlitonades, è necessario guardare in faccia il peggio jusqu’à ce qu’il fosse rire.

Focalizzando la propria pratica su quegli aspetti del reale d’inquieta vaghezza, il lavoro di Giulio Bensasson (Roma, 1990) si lega inscindibilmente a un concetto di temporalità intesa come momento culminante di un processo lento e inesorabile che diventa il materiale espressivo con cui scendere a compromessi, lasciando spazio alla casualità dei suoi effetti. Nel trittico Non so dove, non so quando (souvenir di una muscolatura animale), nato dalla lavorazione di una diapositiva d’archivio immersa in un liquido popolato da muffe, funghi ed elementi organici, la casualità con cui gli agenti esterni influiscono sulla decomposizione dell’immagine diventa l’espendiente per tracciare una linea del tempo della sedimentazione di questa stessa nella mente fino alla completa evanescenza dei fattori di riconoscibilità.
La grande tela dipinta di Cristiano Carotti (Terni, 1981) va intesa come una pala d’altare, affiancata da due lupi in maiolica a lustro. Nella raffigurazione il riso s’incarna in tre feroci cani pastore e la figura del Matto va a spostarsi dallo scanzonato fool all’Arcano senza nome (La Morte). L’aspetto mortifero si collega emotivamente all’archetipo del folle e induce alla rappresentazione di un “guardiano della soglia”. A partire da un confronto identitario con la figura del Matto, la mistica sottesa alla raffigurazione – frutto di un passaggio di tre diversi momenti pittorici – segna lo scatto e il superamento rispetto alla paura della morte, aprendo la soglia del viaggio attraverso gli Arcani per ricongiungersi con il mondo e il tutto.
Francesca Cornacchini (Roma, 1991) riflette sul concetto di norma e condizionamento sociale attraverso tre diverse tipologie di intervento (performance, tela cucita e fotografia). Le opere in mostra si sostanziano così in un’analisi delle condizioni biopolitiche dei nostri enunciati, contemplando la possibilità di una ridefinizione delle categorie fisse. Aprendosi allo spazio, l’insorgenza si fa plastica, mantenendo una dimensione eroica e romantica, data dalla presenza del corpo come innesco. La cultura underground diventa codice espressivo di un linguaggio detonante, violento e fragile.
Camilla Gurgone (Lucca, 1997) presenta tre installazioni scultoree, in cui rotoli in carta termica scendono a terra, tenuti in tensione da una barra porta comande in alluminio. Ogni opera riporta una sequenza di immagini prodotte dall’artista tramite algoritmi di intelligenza artificiale, nel tentativo di ricomporre tutte le scene appartenenti ad un sogno realizzato da lei o raccontatole da altri. L’utilizzo di immagini pescate in rete apre una riflessione sull’immaginario personale e collettivo. La stampa a calore fa riferimento all’evanescenza della memoria i cui ricordi, con il passare del tempo, tendono lentamente a sbiadire.
Le tre tele di Andrea Martinucci (Roma, 1991) riflettono sulla necessità di una riconfigurazione del linguaggio pittorico verso nuove definizioni. Si configurano come un’unione di tre voci, inno alla vita e alla morte del vecchio mondo, diramandosi fuori dal margine per emergere nella notte dei nostri tempi. Le tre opere, interrompendo la distanza oculare con la superficie, si ampliano verso lo spazio attraverso la loro potenza vibrante: un valzer progressista verso i luoghi dell’effimero, del non compiuto e del desiderio.
Niccolò Moronato (Padova, 1985) è presente in mostra con una serie di cut-outs dal progetto Golf is a violent sport e una sonorizzazione in cuffia in cui lo sferzare dei colpi di mazza crea un tappeto sonoro disturbante e inatteso fornendo il punto di vista del campo da gioco. Impiegando riviste di settore e libri per golfisti, l’interesse dell’artista si appunta sulla pervasività della perfezione laccata dei magazines patinati rivelandone l’aspetto più intrinsecamente inquietante. Golf is a violent sport diviene così una manifestazione evidente dell’ossimoro che si cela dietro all’iperperformatività: tra regole ferree impossibili da disattendere per essere considerati i migliori, palme ornamentali e design impeccabile a essere rivelati sono dei piani di sequenza molteplici e discontinui da cui il nostro sguardo finisce per essere risucchiato.
Nella sua installazione Jonathan Vivacqua (Erba, Como, 1986) utilizza, in maniera a-funzionale, le reti elettrosaldate da cantiere. L’elemento della rete metallica, che solitamente rimane nascosto all’interno delle costruzioni in cemento, diventa protagonista dell’intera operazione, anche attraverso l’uso marcato del colore. Pur completamente trasfigurate, le reti mantengono un aspetto consolidante dal punto di vista strutturale. Il lavoro scultoreo centrale, composto principalmente da due corpi che si uniscono, si confronta in maniera diretta con un allestimento a parete in cui la stessa rete si ritrova come esplosa, scomposta meccanicamente a formare altre identità.

Angelica Gatto e Simone Zacchini

Fou Rire
a cura di Angelica Gatto e Simone Zacchini

Mirella Bentivoglio, Giulio Bensasson, Cristiano Carotti, Francesca Cornacchini, Camilla Gurgone, Andrea Martinucci, Niccolò Moronato, Jonathan Vivacqua

La mostra proseguirà fino a Sabato 4 Marzo 2023

1/9unosunove
arte contemporanea


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