venerdì 3 aprile 2015

IN NOMINE SANCTI #2



IN NOMINE SANCTI
Progetto di ART and ARS Gallery
a cura di Carmelo Cipriani e Katia Olivieri

ART and ARS Gallery
Galatina (Lecce)
04 - 24 aprile 2015

Una rievocazione, in chiave contemporanea con luminarie, cibo e musica folk, delle feste patronali tipiche del meridione d'Italia, dove la "santità", e quindi la vera ragione della festa, passa in secondo piano di fronte alla baraonda costituita da centinaia di mercanti e dove l'interesse principale è rivolto alle offerte commerciali, al luna park o all'ospite musicale di turno, molto spesso "osannato" con molto più fervore del Santo Patrono.

[…In una parafrasi della cerimonia collettiva le opere in mostra enfatizzano l’aspetto profano, rivelando nella santità un mero pretesto, mentre ogni tradizione è ridotta ad ennesimo stereotipo vacanziero, degno di dépliant turistici ed esportabile al pari dei prodotti enogastronomici…] (Carmelo Cipriani).


[…operazione che, seppur concepita per uno spazio fieristico ed espositivo, mira ad evocare atmosfere e cerimoniali che, di fatto, intridono ogni spazio fisico e mentale dei luoghi al Sud…] (Katia Olivieri)

“La Puglia è un meraviglioso, austero, paese arcaico” ha scritto Cesare Brandi. Un estremo lembo di terra in cui la modernità sembra avanzare lentamente, salvaguardando tradizioni e testimonianze. Ogni anno schiere di turisti si dirigono a sud calamitate da un’aura di autenticità sempre più minata da logiche consumistiche. Affascinate dall’incorrotta atmosfera delle sagre e delle feste patronali, si assiepano in affollate piazze alla ricerca di quell’arcaismo che per molti ancora connota la religiosità meridionale. Diversa, ma con esiti non dissimili, la condotta degli autoctoni che, nella generale euforia, partecipano inconsapevoli alla scenica rappresentazione, camminando eccitati tra strade agghindate e odorose, dimenticando origine e fine della celebrazione. A poco servono i richiami degli infastiditi parroci, che, invano, cercano di richiamare all’ordine gli indisciplinati fedeli, nell’estremo tentativo di salvaguardare il misticismo residuo. Ed è così che il sacro, suo malgrado, si trasforma nel primum movens di una complessa macchina economica. Ingurgitato dal diffuso laicismo contemporaneo, esso si dilava, fino a disperdersi, tra venditori ambulanti, luculliani banchetti, rappresentazioni vernacolari e quanto di più caratteristico ogni singola città ha da offrire.
Innesco per l’eccitazione collettiva sono le luminarie, montate giorni prima, autentico incipit di ogni pubblica ricorrenza, icone deputate a rappresentare la festa nell’immaginario collettivo. Una visione a cui non si è sottratto neanche Brandi che ad introduzione del suo appassionato racconto dei riti in onore di san Nicola, ha annotato “C’erano, per i festosi viali di Bari, archi di lampadine a non finire, che rientravano l’uno nell’altro, come cerchi concentrici di un tiro a segno”.
Una pregnanza iconica da cui parte anche il progetto “In nomine sancti” presentato a Milano da Art and Ars Gallery. Una collettiva di giovani artisti meridionali, in maggioranza pugliesi, impegnati a riflettere sugli atavici concetti di tradizione e santità; una sardonica ponderazione attuata mediante una rilettura della festa patronale e dei suoi simboli. Innanzitutto il sacro, alla cui sfera, benché trasposta in ambiente profano, si ricollega il lavoro di Paolo Ferrante, che meditando su frammenti esistenziali, confonde personale e collettivo. In piccole teche in resina, circolari o ovali, l’artista racchiude oggetti disparati (parti d’insetti, pezzi scolpiti, ciondoli, piccoli animali o generici frammenti), riconsiderando il concetto di reliquia, non più testimonianza eccezionale e astratta, ma residuo della quotidiana esistenza, generatore di sussulti alla memoria e all’immaginazione: anonimi feticci di cui è esaltata la consunzione, disposti per essere colti nella loro portata estetica e sociale. Sospese tra sacro e profano, tra la chiesa dei simulacri e la strada degli ambulanti, sono invece le ironiche figure di Antonio Straffella in cui santi e supereroi si contaminano, rivelando interessanti parallelismi tra i poteri taumaturgici dei primi e i superpoteri dei secondi. Nel suo modus cogitandi la religiosità è intesa come un terreno elastico, prodotto e animato da un nomadismo culturale in cui suggestioni antipodali si sommano e si compendiano. Una rivisitazione mitografica, nata dall’accostamento di santi passati e futuri, ma anche una riflessione antropologica sulla capacità dell’uomo di rapportarsi al soprannaturale.
Improntate alla tradizione della ceramica pugliese, da cui desumono materiali e decorazioni, le terrecotte smaltate di Michele Giangrande oltrepassano la pura artigianalità per elevarsi ad una dimensione concettuale, in cui la riflessione sulle antinomie (nascita e morte, arcaismo e modernità, essere e apparire) è attuata con caustica ironia e raffinatezza esecutiva. Mentre il gallo, simbolo per eccellenza della coroplastica pugliese, riconduce i manufatti ad una precisa area geografica, l’oggetto riprodotto afferisce ad una condizione universale, attuando una remise en question dei concetti di originalità e autorialità.
La medesima ironia è ravviabile nel lavoro di Dario Agrimi, poliedrico artefice e instancabile sperimentatore. Per l’occasione l’acribia dell’artista si è concentrata sull’immancabile complemento di qualunque festa paesana: il cibo. Attraverso un lavoro d’impostazione postconcettuale, il centro del fare artistico è spostato dall’esperienza dell’artista alla multiforme reazione dello spettatore. Gli oggetti scelti, simulati o ricreati, si fanno allegorie, simboli di aspetti o comportamenti sociali negati con veemenza eppure tacitamente condivisi. Mediante una stratificazione di smalti l’artista simula un deliziosa pietanza, in parte consumata, rendendo tangibile la contrapposizione tra penitenziale santità e blasfema abbondanza. Ad accrescere l’effetto mimetico contribuiscono il piatto e il cucchiaino, autentici object trouveè desunti dal mondo reale, simili a quelli con cui concretamente si servono i dolci nei momenti di festa.
In una parafrasi della cerimonia collettiva le opere in mostra enfatizzano l’aspetto profano, rivelando nella santità un mero pretesto, mentre ogni tradizione è ridotta ad ennesimo stereotipo vacanziero, degno di dépliant turistici ed esportabile al pari dei prodotti enogastronomici. Una festa in cui nulla è come appare ad eccezione dell’atmosfera ricostruita ad hoc per l’occasione. Il tutto con buona pace dei santi titolari, sempre più soli sui loro dorati piedistalli. 
Carmelo Cipriani

L’ironia dei Santi
“Ci sono cretini che hanno visto la Madonna e ci sono cretini che non hanno visto la Madonna. Io sono un cretino che la Madonna non l’ha vista mai. Tutto consiste in questo , vedere la Madonna o non vederla.. I cretini che vedono la Madonna hanno ali improvvise, sanno anche volare e riposare a terra come una piuma, i cretini che la Madonna non la vedono non hanno le ali, sono negati al volo, eppure volano lo stesso, e invece di posare ricadono come se un tale, avendo il piombo alle caviglie e volendo disfarsene, decidesse di tagliarsi i piedi e si trascinasse verso la salvezza. I cretini che non hanno visto la Madonna hanno orrore di sé, cercano altrove, nelle donne, nelle preghiere, in convenevoli del quotidiano: questo porta a miriadi di altari… I nostri contemporanei sono stupidi, ma prostrarsi ai piedi dei più stupidi di essi significa pregare. Si prega così oggi, come sempre. Frequentare i più dotati non vuol dire accostarsi all’assoluto comunque. Essere finalmente il più cretino. Religione è una parola antica. “
L’intenzione trasgressiva e sacrilega di Carmelo Bene ben spiega le ragioni di questa operazione che, seppur concepita per uno spazio fieristico ed espositivo, mira ad evocare atmosfere e cerimoniali che, di fatto, intridono ogni spazio fisico e mentale dei luoghi al Sud. Luoghi di decadenza e fragilità sotterranee, luoghi contaminati da una magia che si è fatta portatrice di valori salvifici, strumento di difesa contro le continue crisi che su questa parte di mondo si sono sempre accanite come un capriccio di Dio. E’ un Sud cartina tornasole dell’intera Europa, che ha imparato ad espiare colpe nel ballo di San Vito, nella danza delle spade della notte di San Rocco, nei pellegrinaggi, nelle processioni sotto la casa del boss, nelle edicole votive ed altari improvvisati. In questo mix fecondo e particolare di spiritualità e paganesimo, emerge in un solo gesto una cultura antica che ha sempre fatto materialmente della trascendenza un passaggio appena percepibile tra l’infinitamente basso e l’infinitamente alto. Nel rito, nel sacro, nella devozione verso il Santo patrono le classi subalterne hanno sempre cercato una protezione psicologica dal male, dalla sfortuna, dalla malasorte. Perché i Santi, più di Gesù e della Madonna, hanno sempre goduto di una certa “ popolarità”, hanno sempre rappresentato qualcosa in più, custodi tutelari, simbolo di una collettività e del suo senso civico, intermediari tra popolo e quel Dio assente (lo Stato) e indifferente alla condizione della sua gente, anche nei suoi bisogni più elementari.
Da questi riti di espiazione/devozione nasce l’ultimo lavoro del Laboratorio Saccardi che, quasi a replicare la pratica degli ex voto, ha realizzato dalla fusione di 3000 monete di centesimi di euro la statua della Madonna collocata presso la Chiesa dei Quaranta Martiri di Palermo. Si tratta di una meditazione profonda e dissacratoria, colta e audace, su quel senso del sacro e del suo opposto che caratterizza la Sicilia, della quale gli artisti del Saccardi colgono gli aspetti più sinceri e contraddittori. Una riflessione che anima provocatoriamente le xilografie – realizzate in occasione della bi-personale Saccardi-Cucchi, inaugurata lo scorso novembre alla Galleria d’Arte Moderna di Palermo – raffiguranti la mitica setta dei Beati Paoli al cui mito popolare, nonostante riletture e revisionismi storici, è associata la nascita della mafia in Sicilia. Lo stesso accade nella piccola effige di Santa Rosalia, amata patrona della città, apparentemente tradizionale nell’impostazione iconografica, e tuttavia ‘dissacrata’ da quel teschio che diventa un pallone e dallo stemma del calcio Palermo sul suo mantello, in un continuo slittamento semantico tra simbologia sacra e profana, vecchi desideri e nuovi miti.
Nelle riproduzioni seriali di Salvatore Masciullo non v’è differenza tra santi, nuovi e vecchi miti; ogni personaggio altro non è che il figlio del suo tempo, destinato così ad essere surclassato e dimenticato. Santi ed eroi, attori e simboli sono elementi di una personale concezione del sacro, senza soluzione di continuità, colti tutti sullo stesso piano simbolico e nella loro caducità. Le sbavature di colore, il foglio di giornale su cui la pittura è impressa, tutto dà la sensazione di trovarsi innanzi ad una pittura provvisoria, sporca, non finita. Le scritte apparentemente in contrasto con le immagini in realtà sono compendio di esse: la citazione, di fatti, non è mai banale, ha sempre una relazione con il soggetto rappresentato, espressa in un humor un po’ dandy e un po’ punk, spesso doloroso, suggerisce l’idea di un pittore in guerra con i santi oltre che con il suo mezzo espressivo.
L’ultima parabola dello svuotamento di senso del sacro, della perdita della dimensione della trascendenza lo si ravvisa nell’operazione Loschi-Fontana, una serie a quattro mani realizzata su carta da imballaggio. Nella serie di santi e papi nessuna traccia residuale di santità e potenza, neanche un accenno di metafora. Trasposta in chiave ludica, la santità si è fatta altro, sagoma vuota senza accenno di autorialità. Nell’opera “Per battere i fanti gioca coi santi” Fontana richiama un noto adagio popolare: se nel motto il concetto è che dei fanti si può anche parlare con leggerezza e in tono sfottente e irrispettoso, mentre riguardo ai santi s’impone la devozione, in questo caso l’ordine è totalmente rovesciato, tanto da supporre di poter giocare con le immagini dei santi come nel calcio balilla. Dell’idea del sacro rimane solo l’associazione mentale, suggerita dal collage dei materiali e dall’utilizzo dei suoi simboli, senza nessuna riverenza e nessuna misconoscenza ma solo per la loro forma pura in sé. Come nella croce di Big Jesus in cui il sacro tecnologico semmai assume nuova dimensione della trascendenza.
Una visione decadente e nostalgica guida la ricerca di Angelo Marinelli, il cui obiettivo fotografico nella serie The Gift indugia su luoghi di culto e preghiera, scorci di devozione popolare, basiliche, edicole votive, altari, immersi nello spazio architettonico del quotidiano eppure da esso separato, sospesi in un tempo sacro che sembra immobile e dilatato, certamente diverso dall’ordine del tempo normale. Luoghi che non sono nati sacri ma che lo sono diventati per mezzo e tramite della devozione, della preghiera, per il fatto di essere stati frequentati e percepiti come luoghi della trascendenza, ed in cui la presenza della santità altro non è che l’esito di una tradizione, di una certezza, di una necessità. Le immagini di Marinelli sono dettagli eppure da sole bastano a trasmetterci la forza evocatrice dei luoghi deputati al rito, per quanto contaminati, abbandonati, spesso svuotati di senso, vuoti altari perché è vero che, prima o poi, anche gli dei se ne vanno e di essi rimangono solo simulacri Made in China. 
Katia Olivieri


ART and ARS Gallery
Via R.Orsini, 10, 73013 Galatina

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