dal 13 al 25 novembre 2010
Galleria "Arianna Sartori"
Mantova - via Cappello, 17 - tel. 0376.324260
Gian Paolo Dulbecco. Il vizio di dipingere
Date: dal 13 al 25 novembre 2010
Inaugurazione: Sabato 13 novembre, ore 17.00. Sarà presente l’artista
Orario di apertura: 10.00 - 12.30 / 16.00 - 19.30. Chiuso Festivi.
La Galleria “Arianna Sartori Arte & object design” di Mantova, in via Cappello 17, il pros-simo Sabato 13 novembre, alle ore 17.00, inaugura la mostra personale dell’artista Gian Pao-lo Dulbecco intitolata "Il vizio di dipingere".
Gian Paolo Dulbecco, nato a La Spezia nel 1941 ma milanese d’adozione, sarà presente all’inaugurazione.
La personale resterà aperta al pubblico fino al 25 novembre con orario dal Lunedì al Sabato dalle 10.00 alle 12.30 e dalle 16.00 alle 19.30.
“Forme concrete che emergono con plastica tattilità, ma come venute di lontano; luce sotto la quale la pelle delle cose si scalda e vibra sensibile, ma la cui chiarità permane inalterata, estranea alle ore del giorno. Le cose dipinte da Gian Paolo Dulbecco tendono alla rappresentazione per forza evoca-tiva.
Più delle cose lo interessano le idee: «ogni mio quadro deve avere l'avvio da una idea» egli affer-ma. Naturale che gli artisti da lui prediletti siano Boecklin, De Chirico, Martini, tutti dentro il ri-verbero del grande amore per Piero della Francesca.
Alla tecnica tuttavia Dulbecco presta molta attenzione. Il colore a olio, modulato, senza stesure di tocco immediate e definitive, si giova di sovrapposizioni e soprattutto di velature; l'effetto è quasi di tempera grassa. Quasi sempre il clima generale ottenuto è di un caldo tonalismo un poco acidulo per la presenza del carminio o della garanza.
Dulbecco ama compiere mentali viaggi in luoghi remoti onde reperire immagini straordinarie da collocare nel recinto dei suoi quadri; la sua operazione pittorica ha le qualità dell'archeologia. Viaggi come avventure della memoria che conducono nell'oasi della mitologia, dove coesistono es-senzialità, mistero, resistenza, perennità; dove gli avvenimenti hanno la solennità del rito.
Le letture preferite dall'artista sono saggi di storia, la storia antica. Le suggestioni odierne, la cro-naca, il sensibile circostante, tutto ciò viene preso in considerazione solo se può regredire, affonda-re nel passato remoto e caricarsi di un recondito significato. Le immagini comunque, anziché cor-rose e confuse, si presentano integre e forti, sorgono nel mezzo del quadro piantate come monu-menti. Le rocce, i muri sono gli elementi dominanti: architetture rupestri naturali e artificiali, isola-te; elementi di un palcoscenico vicino, ma irraggiungibile. Il cielo è un velario appeso, talvolta, al disco del sole, alla falce della luna.
Scoperto è l'aspetto teatrale e l'amore per la scenografia. La sodezza ed essenzialità plastica, neo-classica in sostanza, riecheggiante per certi versi il «Novecento» italiano, di recuperata memoria, si complica in Dulbecco con umori romantici tedeschi, le ascendenze e gli studi del nostro non sono solo italiani, come dire che alla solarità classica si accompagna una lunare, sottile malinconia. A ciò si aggiunga uno spiccato gusto ornativo.
Con estrema onestà l'artista non ha mai smesso di cercare e di cercarsi; la sua maturazione spiritua-le va di pari passo con una raffinatezza espressiva che, se non vuole essere definitiva, risulta già molto convincente.
Dopo la serie delle ninfee, dei presepi e dei calvari, Dulbecco ha recentemente affrontato il mondo dei Tarocchi. Questi «segni» di una densità cosi assoluta, araldica sibillina dell'umano profondo, palestra e stimolo di molteplici ricerche artistiche”.
Valerio Pilon
“L’autobiografia onirica di Dulbecco prescinde dal bosco incantatore e racchiude la scena in un in-visibile scrigno attraverso il quale si ha l’impressione che le forme del paesaggio e le misteriose presenze dell’umano si animino in un andare ciclico come accade per gli androidi dell’orologeria colta mitteleuropea nell’ansiosa età dei Lumi.
La natura, al contrario, si presenta fantasmatica e iconica ad un tempo, dovendo assumere l’ufficio della quinta teatrale, come antiche ed ancestrali valenze per una semantica misteriosa appaiono i minuti e totemici alberi che segnano la spazialità svuotata dal sogno.
Il tempo sospeso, in cui la narrazione si coglie come in una lanterna magica, consente di meditare sull’apparenza dei rimandi e sulla laboriosa e fertile citazione che, sull’orlo del ricominciamento, si fa artefice di un linguaggio colto quanto arcano, tramandato da una confraternita non detta in cui si riconoscono i raccoglitori di testimonianze: Savinio innanzitutto, ma anche de Chirico e, poi, Ma-gritte sono scenografi cui si indirizza la “machina” scenica della regia pensosa e sedimentata di Dulbecco, una regia che, non lontana da recuperi psicologici prossimi alla pittura del sentire simbo-lista, reperisce il sentimento esistenziale nelle atmosfere del quotidiano irreale fiammingo.
Laddove infatti gli operatori della Metafisica hanno raccomandato la necessarietà e l’urgenza del paradigma, assoluto quanto apocalittico per la rasserenata scomparsa della tensione al presente e del confronto con la realtà, le opere trascritte dallo spirito di Van Eyck e di Vermeer si portano sul piano di un sentire che non rinuncia alle ragioni dell’esistere, degli spazi del quotidiano, del tempo dissolto nei rarefatti interni dove la luce risiede come essenza di spiritualità.
Così Dulbecco, tra Narciso allo specchio dell’anima, e Prometeo costruttore di un mondo nuovo, tesse una laboriosa tela, filtrata dall’utopia, dove una trama di competenza si impone nella forma del racconto mitico, chiedendo al colore di farsi memoria di più antica memoria.
Un rovesciamento del tempo pare condurci alle fonti della conoscenza che, mentre riveste le vesti fascinose della tradizione toscana, pone rigide contrapposizioni tra mondi segnati da differenti i-dentità ideologico culturali; identità fortemente radicate in un’ideologia che attende il realizzarsi delle utopie preconizzate e dispiegate dall’artista quale canonico tasto della speranza. Si tratta di un procedimento ermeneutico antico quanto fragile, che trae il nucleo tematico da vestigia perse nel tempo che, non senza fatica, vengono gradualmente dissepolte dalla memoria. Nella pittura meta-storica viene contemporaneamente portata in scena la falsa coscienza polita nel suo vessillo, sem-pre possibilista, di cambiare il mondo, strategia di comunicazione tra la patente illusorietà e la luci-da consapevolezza della naturale contradditorietà del tempo.
L’artista a questo punto apre la bottega della visione e plasma il suo prodotto quale contenitore e contenuto del racconto metaforico, topos del viaggio iniziatico e prospettazione di una rimodellata stagione dei valori primari.
L’ambiente diventa, in questo modo, un racconto soltanto potenziale, dove l'intero paesaggio di-venta l'immensa arca di una cattedrale, paradigma di una spiritualità spaziale e segnica, in quanto necessitata da idealità tipizzate, sospese, queste ultime, tra testimonianza e travestimento ambiguo.
Quella di Dulbecco è una fantasia affabulatoria, chiamata all’opera di smascheramento dello spa-zio claustrofobico che, alla fine pone in essere un confronto trasparente, per divenire padrona dell’ansia disciolta nell’aria; è, inoltre, una dinamica narrativa efficace che mobilita lo spazio non senza dubbi sul ruolo semanticamente e strutturalmente forte del paesaggio.
Anche per questo si impone il carattere monoprospettico del racconto psicologico, nel finale di scena articolato con dislocazioni tematiche che pongono l’essenza della distanza nel tempo dell’azione. Una scena “primitiva” allora, ampiamente referenziata in ambito storico: scarto tempo-rale, in ultima analisi, dell’approfondimento tematico, rappresentato nel linguaggio specifico delle immagini.
E cammina Dulbecco nel giardino dell’anima, in una natura non indifferente, tra ombre portate e giochi di ombre e di luci nelle silenti notti dalle sublimi magie. Traccia tutta la didascalia del non detto sull’eterna simbologia del mito, sulla terra dell’età dell’oro, sull’alba di luna dal palcoscenico dell’assurdo, evocando il peccato di “hybris” dell’alchimista.
Il notturno solare fa emergere le somiglianze negli umani percorsi, consente all’autore di riflettere sul rapporto tra l’arte, la natura e la storia e sulla possibilità che il mescolamento dia luogo ad un’idea di bellezza possibile.
Dulbecco fa eco alla sua voce narrante, individua una natura benigna unificante, indica un ideale di vita, il tutto raccogliendo brandelli di un passato trionfo tra canti di un'immaginazione criptica. Il suo viaggio iniziatico nell’arte e la favola della prefigurazione dell’utopia: contempla la realtà a-temporale e costruisce una bellezza perché vi si possa riconoscere.
Da alchimista consapevole riconduce tutto ad un aspetto indecifrabile della visione del mondo, comprende a fondo il paesaggio e la consapevolezza del percorso, conquista una coscienza religio-sa dell'intelletto e della ragione, misura lo spazio dei sentimenti impercettibili, redime la storia a semplice ed indubbia verità, recuperando tutto il passato nell’essenza della vita.
Pare, quasi, che Dulbecco, come era capitato a Luchino Visconti, per giungere alla realtà ricorra all’artificio più completo”.
Claudio Caserta
Galleria "Arianna Sartori"
Mantova - via Cappello, 17 - tel. 0376.324260
Gian Paolo Dulbecco. Il vizio di dipingere
Date: dal 13 al 25 novembre 2010
Inaugurazione: Sabato 13 novembre, ore 17.00. Sarà presente l’artista
Orario di apertura: 10.00 - 12.30 / 16.00 - 19.30. Chiuso Festivi.
La Galleria “Arianna Sartori Arte & object design” di Mantova, in via Cappello 17, il pros-simo Sabato 13 novembre, alle ore 17.00, inaugura la mostra personale dell’artista Gian Pao-lo Dulbecco intitolata "Il vizio di dipingere".
Gian Paolo Dulbecco, nato a La Spezia nel 1941 ma milanese d’adozione, sarà presente all’inaugurazione.
La personale resterà aperta al pubblico fino al 25 novembre con orario dal Lunedì al Sabato dalle 10.00 alle 12.30 e dalle 16.00 alle 19.30.
“Forme concrete che emergono con plastica tattilità, ma come venute di lontano; luce sotto la quale la pelle delle cose si scalda e vibra sensibile, ma la cui chiarità permane inalterata, estranea alle ore del giorno. Le cose dipinte da Gian Paolo Dulbecco tendono alla rappresentazione per forza evoca-tiva.
Più delle cose lo interessano le idee: «ogni mio quadro deve avere l'avvio da una idea» egli affer-ma. Naturale che gli artisti da lui prediletti siano Boecklin, De Chirico, Martini, tutti dentro il ri-verbero del grande amore per Piero della Francesca.
Alla tecnica tuttavia Dulbecco presta molta attenzione. Il colore a olio, modulato, senza stesure di tocco immediate e definitive, si giova di sovrapposizioni e soprattutto di velature; l'effetto è quasi di tempera grassa. Quasi sempre il clima generale ottenuto è di un caldo tonalismo un poco acidulo per la presenza del carminio o della garanza.
Dulbecco ama compiere mentali viaggi in luoghi remoti onde reperire immagini straordinarie da collocare nel recinto dei suoi quadri; la sua operazione pittorica ha le qualità dell'archeologia. Viaggi come avventure della memoria che conducono nell'oasi della mitologia, dove coesistono es-senzialità, mistero, resistenza, perennità; dove gli avvenimenti hanno la solennità del rito.
Le letture preferite dall'artista sono saggi di storia, la storia antica. Le suggestioni odierne, la cro-naca, il sensibile circostante, tutto ciò viene preso in considerazione solo se può regredire, affonda-re nel passato remoto e caricarsi di un recondito significato. Le immagini comunque, anziché cor-rose e confuse, si presentano integre e forti, sorgono nel mezzo del quadro piantate come monu-menti. Le rocce, i muri sono gli elementi dominanti: architetture rupestri naturali e artificiali, isola-te; elementi di un palcoscenico vicino, ma irraggiungibile. Il cielo è un velario appeso, talvolta, al disco del sole, alla falce della luna.
Scoperto è l'aspetto teatrale e l'amore per la scenografia. La sodezza ed essenzialità plastica, neo-classica in sostanza, riecheggiante per certi versi il «Novecento» italiano, di recuperata memoria, si complica in Dulbecco con umori romantici tedeschi, le ascendenze e gli studi del nostro non sono solo italiani, come dire che alla solarità classica si accompagna una lunare, sottile malinconia. A ciò si aggiunga uno spiccato gusto ornativo.
Con estrema onestà l'artista non ha mai smesso di cercare e di cercarsi; la sua maturazione spiritua-le va di pari passo con una raffinatezza espressiva che, se non vuole essere definitiva, risulta già molto convincente.
Dopo la serie delle ninfee, dei presepi e dei calvari, Dulbecco ha recentemente affrontato il mondo dei Tarocchi. Questi «segni» di una densità cosi assoluta, araldica sibillina dell'umano profondo, palestra e stimolo di molteplici ricerche artistiche”.
Valerio Pilon
“L’autobiografia onirica di Dulbecco prescinde dal bosco incantatore e racchiude la scena in un in-visibile scrigno attraverso il quale si ha l’impressione che le forme del paesaggio e le misteriose presenze dell’umano si animino in un andare ciclico come accade per gli androidi dell’orologeria colta mitteleuropea nell’ansiosa età dei Lumi.
La natura, al contrario, si presenta fantasmatica e iconica ad un tempo, dovendo assumere l’ufficio della quinta teatrale, come antiche ed ancestrali valenze per una semantica misteriosa appaiono i minuti e totemici alberi che segnano la spazialità svuotata dal sogno.
Il tempo sospeso, in cui la narrazione si coglie come in una lanterna magica, consente di meditare sull’apparenza dei rimandi e sulla laboriosa e fertile citazione che, sull’orlo del ricominciamento, si fa artefice di un linguaggio colto quanto arcano, tramandato da una confraternita non detta in cui si riconoscono i raccoglitori di testimonianze: Savinio innanzitutto, ma anche de Chirico e, poi, Ma-gritte sono scenografi cui si indirizza la “machina” scenica della regia pensosa e sedimentata di Dulbecco, una regia che, non lontana da recuperi psicologici prossimi alla pittura del sentire simbo-lista, reperisce il sentimento esistenziale nelle atmosfere del quotidiano irreale fiammingo.
Laddove infatti gli operatori della Metafisica hanno raccomandato la necessarietà e l’urgenza del paradigma, assoluto quanto apocalittico per la rasserenata scomparsa della tensione al presente e del confronto con la realtà, le opere trascritte dallo spirito di Van Eyck e di Vermeer si portano sul piano di un sentire che non rinuncia alle ragioni dell’esistere, degli spazi del quotidiano, del tempo dissolto nei rarefatti interni dove la luce risiede come essenza di spiritualità.
Così Dulbecco, tra Narciso allo specchio dell’anima, e Prometeo costruttore di un mondo nuovo, tesse una laboriosa tela, filtrata dall’utopia, dove una trama di competenza si impone nella forma del racconto mitico, chiedendo al colore di farsi memoria di più antica memoria.
Un rovesciamento del tempo pare condurci alle fonti della conoscenza che, mentre riveste le vesti fascinose della tradizione toscana, pone rigide contrapposizioni tra mondi segnati da differenti i-dentità ideologico culturali; identità fortemente radicate in un’ideologia che attende il realizzarsi delle utopie preconizzate e dispiegate dall’artista quale canonico tasto della speranza. Si tratta di un procedimento ermeneutico antico quanto fragile, che trae il nucleo tematico da vestigia perse nel tempo che, non senza fatica, vengono gradualmente dissepolte dalla memoria. Nella pittura meta-storica viene contemporaneamente portata in scena la falsa coscienza polita nel suo vessillo, sem-pre possibilista, di cambiare il mondo, strategia di comunicazione tra la patente illusorietà e la luci-da consapevolezza della naturale contradditorietà del tempo.
L’artista a questo punto apre la bottega della visione e plasma il suo prodotto quale contenitore e contenuto del racconto metaforico, topos del viaggio iniziatico e prospettazione di una rimodellata stagione dei valori primari.
L’ambiente diventa, in questo modo, un racconto soltanto potenziale, dove l'intero paesaggio di-venta l'immensa arca di una cattedrale, paradigma di una spiritualità spaziale e segnica, in quanto necessitata da idealità tipizzate, sospese, queste ultime, tra testimonianza e travestimento ambiguo.
Quella di Dulbecco è una fantasia affabulatoria, chiamata all’opera di smascheramento dello spa-zio claustrofobico che, alla fine pone in essere un confronto trasparente, per divenire padrona dell’ansia disciolta nell’aria; è, inoltre, una dinamica narrativa efficace che mobilita lo spazio non senza dubbi sul ruolo semanticamente e strutturalmente forte del paesaggio.
Anche per questo si impone il carattere monoprospettico del racconto psicologico, nel finale di scena articolato con dislocazioni tematiche che pongono l’essenza della distanza nel tempo dell’azione. Una scena “primitiva” allora, ampiamente referenziata in ambito storico: scarto tempo-rale, in ultima analisi, dell’approfondimento tematico, rappresentato nel linguaggio specifico delle immagini.
E cammina Dulbecco nel giardino dell’anima, in una natura non indifferente, tra ombre portate e giochi di ombre e di luci nelle silenti notti dalle sublimi magie. Traccia tutta la didascalia del non detto sull’eterna simbologia del mito, sulla terra dell’età dell’oro, sull’alba di luna dal palcoscenico dell’assurdo, evocando il peccato di “hybris” dell’alchimista.
Il notturno solare fa emergere le somiglianze negli umani percorsi, consente all’autore di riflettere sul rapporto tra l’arte, la natura e la storia e sulla possibilità che il mescolamento dia luogo ad un’idea di bellezza possibile.
Dulbecco fa eco alla sua voce narrante, individua una natura benigna unificante, indica un ideale di vita, il tutto raccogliendo brandelli di un passato trionfo tra canti di un'immaginazione criptica. Il suo viaggio iniziatico nell’arte e la favola della prefigurazione dell’utopia: contempla la realtà a-temporale e costruisce una bellezza perché vi si possa riconoscere.
Da alchimista consapevole riconduce tutto ad un aspetto indecifrabile della visione del mondo, comprende a fondo il paesaggio e la consapevolezza del percorso, conquista una coscienza religio-sa dell'intelletto e della ragione, misura lo spazio dei sentimenti impercettibili, redime la storia a semplice ed indubbia verità, recuperando tutto il passato nell’essenza della vita.
Pare, quasi, che Dulbecco, come era capitato a Luchino Visconti, per giungere alla realtà ricorra all’artificio più completo”.
Claudio Caserta