GiovanniTermini_Tappeto_ph. Michele Alberto Sereni
A due anni dalla sua ultima personale, Giovanni Termini torna a Pistoia con una nuova mostra dal titolo Il sonno della pozzanghera, che sarà ospitata alla Galleria ME Vannucci dal 9 marzo al 1 maggio. Questo nuovo progetto arriva dopo la partecipazione alla collettiva Senza mai sfiorire, presso la Galleria d'Arte Moderna di Palazzo Collicola a Spoleto, e la personale La promessa del vuoto, tenutasi al Pastificio Cerere di Roma.
Accompagnata da un testo critico di Saverio Verini, Il sonno della pozzanghera prosegue l'esplorazione di Termini sulle relazioni e sul dialogo che le sue opere stabiliscono non solo tra loro, ma anche con l'ambiente circostante. Ogni creazione non esiste in isolamento, ma fa parte di un contesto che si estende ben oltre le mura della galleria.
Le opere orbitano intorno a un elemento centrale, il cuore pulsante della mostra. Quest'opera non è statica, ma si attiva attraverso l'interazione con il mondo esterno, generando un continuo scambio di energie. È proprio questa opera, capace di rispondere e adattarsi agli stimoli esterni, che ha ispirato il titolo della mostra. Il "sonno" simboleggia una condizione di attesa e quiete, ma non è mai passivo: si tratta di un sonno che si risveglia e si attiva non appena entra in relazione con ciò che la circonda, incarnando l'interconnessione che caratterizza l'intero progetto artistico.
Biografia
Giovanni Termini è nato ad Assoro (En) nel 1972, vive e lavora a Pesaro. Ha esposto in Italia e all’estero.
Tra le mostre personali: La promessa del vuoto, presso il Pastificio Cerere di Roma; Da quale pulpito, Museo del Novecento e del Contemporaneo di Palazzo Fabroni, Pistoia; L’umanità degli oggetti, Jason Dodge - Giovanni Termini, Kappa Noun, San Lazzaro di Savena, Bologna; Come la metti sta, Palazzo Tiranni - Castracane, Cagli (PU); In fondo a destra, Palazzo Filippo Mezzopreti, Pescara; Visioni d’insieme, Mac Museo di Lissone; Disarmata, Fondazione Pescheria, Pesaro.
Tra le collettive: Senza mai sfiorire, presso la Galleria d'Arte Moderna, Palazzo Collicola di Spoleto, Another world is possible, Centrul de Interes 4th, Cluj Napoca, Romania; Rifrazioni, Accademia Nazionale di San Luca, Roma; Per via del tutto eccezionale, Fondazione Filiberto Menna, Roma; Upcycle, Residenza dell’Ambasciata d’Italia, Berna, Svizzera; The new abnormal, Straperetana, Pereto (AQ); La forma della terra, Fondazione Menegaz, Castelbasso; Arte e tecnologia, Museo di Lan Wan, Qingdao, Cina; DISIO - Nostalgia del futuro, Sala Tac, La Caja, Istituto Italiano di Cultura, Caracas, Venezuela; Rilevamenti #1, CAMUSAC, Cassino; Au Rendez-Vous des Amis, Palazzo Vitelli Fondazione Burri, Città di Castello; XV Quadriennale di Roma, Palazzo delle Esposizioni; I Premio Internazionale Giovani Scultori, Fondazione Arnaldo Pomodoro, Milano.
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La bella inutilità.Alcuni pensieri attorno all’opera di Giovanni TerminiOsservo ormai da un po' di tempo le opere di Giovanni Termini. L’incontro con i suoi lavori è sempre sorprendente: in ogni opera, Termini riesce a mettere a punto nuovi modi per ribaltare il punto di vista, per instillare un dubbio percettivo, per raccontare qualcosa sulla nostra fragile condizione di esseri umani. Nel fare ciò, l’artista ha messo a punto un linguaggio rigoroso e riconoscibile, non soltanto a livello formale, quanto nello sguardo, nel modo di pensare. Una sensibilità peculiare, quella di Termini, che lo porta a considerare gli oggetti e le cose che ci circondano non dico come delle persone, ma comunque come esseri dotati di una postura, di un carattere. Persino il più freddo degli elementi industriali, una volta passato attraverso il “filtro Termini” acquista una personalità, finendo per somigliare a qualcuno che conosciamo, a una situazione vissuta, a uno stato d’animo provato. Non è un caso che una recente mostra di Termini – una doppia personale con Jason Dodge allestita nel 2022 nello spazio Kappa-Nöun, alle porte di Bologna, a cura di Simone Ciglia – si intitolasse L’umanità degli oggetti. Gli oggetti sono il punto di partenza imprescindibile per l’artista: e più sono banali, algidi, seriali, più la loro trasfigurazione in opera risulta miracolosa. Può sembrare esagerato parlare di miracolo di fronte a un’opera d’arte. Eppure, trovo che nel caso di Termini non sia così inappropriato. Come un carpentiere in stato di grazia, l’artista fa compiere ai materiali che utilizza dei salti minimi e insieme radicali, stravolgendo la percezione che ne abbiamo abitualmente e caricandoli di un’umanità palpabile. La sua pratica procede per via di porre, attraverso assemblaggi, innesti e ibridazioni di elementi prelevati dalla realtà. Ad attrarlo sono per lo più contesti marginali e apparentemente privi di fascino: cantieri e aree periferiche, con le loro impalcature, cavalletti, catene, panchine, pezzi di legno; ma anche tappetini per fare ginnastica, porzioni di parquet e specchi fanno parte della popolazione di oggetti di cui si serve. Questi materiali, spogliati della loro funzionalità e combinati tra loro, creano dei cortocircuiti visivi e semantici, rivelando un’inaspettata dimensione poetica. Mi verrebbe da dire che le opere di Termini nascano sotto la dettatura di un sogno inquieto, conservando tuttavia la concretezza di un’area sottoposta a lavori in corso. Ruvidezza e poesia, malinconia e ironia, grottesco ed eleganza danzano assieme nelle sculture dell’artista, che mantengono una distanza di sicurezza da ogni forma di patetismo, a partire dai titoli, sempre asciutti e incisivi. È senza dubbio il caso de Il sonno della pozzanghera, quarta mostra di Termini alla galleria ME Vannucci di Pistoia. In questo caso è un’opera a dare il titolo all’intera esposizione. Ma cos’è la pozzanghera di cui ci parla Termini? Si sa, gli artisti vivono di ossessioni; e per lui, in questo caso, è stato un dettaglio minimo a trasformarsi in un chiodo fisso. Il pavimento della galleria – e dopo la visita a questa mostra sarà impossibile non notarlo – è segnato da alcune macchie: si tratta di chiazze di risalita che testimoniano la precedente vita dello spazio espositivo – un’officina –, tracce che il più delle volte il visitatore si limita a calpestare, passandoci sopra, in senso letterale e figurato. La storia, per Giovanni Termini, si ripete sotto forma di macchia che trasuda dal pavimento, sfidando il tempo. Un dettaglio interstiziale diventa una voragine nella quale tuffarsi, suggerendo immagini e storie; è così che l’artista ha generato una pozzanghera, attorno alla quale orbitano tutte le altre opere. Ma procediamo con ordine, seguendo le opere – tutte inedite – disseminate nello spazio della galleria, una popolazione garbatamente eccentrica. Combinazione è il primo incontro. L’opera è una summa della poetica di Termini, fondata sull’utilizzo di materiali industriali, sull’ironia dettata dal rivestimento in denim, sull’umanizzazione degli elementi. Ma soprattutto è un lavoro che mette in chiaro la sua idea di scultura: il procedere per assemblaggio di parti, l’equilibrio magico tra monumentalità e precarietà, la possibilità che l’opera possa avere una crescita/estensione modulare (idea totalmente brancusiana). Combinazione ci parla anche del luogo e della sua antica destinazione d’uso: un ambiente di lavoro, evocato dal rivestimento in jeans, tessuto storicamente associato alla working class. La zincatura dà all’opera una patina che si accorda anche ad altre opere presenti nella stanza, sottolineandone il carattere ruvidamente scintillante. La disfunzionalità di questo assemblaggio ne dichiara il fallimento come oggetto, decretandone l’ingresso nel mondo delle opere d’arte. Analogamente, il tappeto per esercizi ginnici arrotolato al cilindro in cemento perde ogni possibile utilità, suggerendo un rapporto sentimentale tra i due elementi. Materassino, questo il titolo, è l’abbraccio tra un colore acceso e uno cupo, tra un materiale morbido e uno duro, tra opposti che si incontrano e si riscaldano a vicenda, perdendo e acquistando qualcosa al tempo stesso: il tappeto prende la forma del cilindro, con quest’ultimo che viene a sua volta fatto brillare dal colore acceso del neoprene.
Al centro dello spazio, tra le due opere che accolgono il visitatore – e credo sia una scelta deliberata quella di affiancare il lavoro più grande a quello più piccolo della mostra, quasi a volerne mostrare le estremità opposte – appare Il sonno della pozzanghera, la title track dell’esposizione. L’opera presenta diverse anomalie: non solo è collocata di spalle, ma ci propone la più tipica delle distrazioni, un rubinetto lasciato aperto, con l’acqua che, gocciando, si deposita a terra. È questa la pozzanghera annunciata da Termini: un’interferenza, un malfunzionamento, una seccatura che diventa tuttavia espediente poetico, capace di unire l’esterno e l’interno della mostra (il tubo è collegato a un rubinetto in cortile), invitando l’osservatore ad avvicinarsi e a specchiarsi nella superficie riflettente. Peccato che, approcciandosi gradualmente, lo specchio restituisca forse l’immagine meno nobile del corpo – i piedi e i polpacci –, escludendo il resto e mortificando il Narciso che è in noi. L’opera, che ha precedenti nobili (su tutti 9 mq di pozzanghere di Pino Pascali, del 1967), è il manifesto della mostra e delle sue entusiasmanti disfunzionalità. Da questo punto di vista, non sono da meno gli altri lavori presentati per l’occasione, a partire da Porta. L’opera va ad aggiungere un varco nella lunga parete in cemento, ovviamente priva di aperture: una soglia inattraversabile, fittizia, incapace di stare in piedi e con un grazioso nodo dato dall’intreccio delle catene. Queste ultime richiamano le tendine di plastica allestite sull’uscio di casa, in particolar modo nel sud Italia: ho la sensazione che con questo intervento Termini voglia rendere omaggio alla sua terra d’origine, l’entroterra siciliano, e in qualche modo all’idea della provincia, alle sue tenere asprezze.
Panchina è l’ennesimo paradosso visivo de Il sonno della pozzanghera. L’elemento viene privato ancora una volta di ogni possibilità di utilizzo, verticalizzato e cinto da un foglio di legno multistrato curvabile – predisposto a piegarsi, ma non a spezzarsi. Come a volte capita nei lavori di Termini, la scultura lascia presupporre un movimento potenziale, una forza trattenuta in attesa di slancio: e se non fosse per le pinze che tengono fermo il legno – se una mano impertinente decidesse di rimuoverle, poniamo – chissà il foglio in multistrato in quale direzione si espanderebbe…
All’angolo della stanza, Segna limite è forse la presenza più drammatica della mostra. Lo suggeriscono lo sradicamento del paletto stradale e la sua torsione, che conservano memoria di un impatto violento; mi basta guardare quel pezzo per sentirmi trasportano sul ciglio di una strada poco illuminata. Attraverso la fusione in alluminio, l’elemento viene cristallizzato insieme alla sua precarietà, per una trasfigurazione che risulta elegante e insieme brutale.
Prima di uscire dalla mostra, il pubblico è posto di fronte a un elemento che di solito dà il benvenuto in un luogo, per un ultimo ribaltamento controintuitivo. Il Tappeto in gomma immaginato da Termini, incorniciato da un rettangolo di legno laccato, risulta inaccessibile; simile a un quadro steso a terra, il rigonfiamento che ne altera la superficie – causato da un rotolo di scotch incastonato al di sotto – è l’ultimo inciampo visivo che l’artista offre, un’estroflessione anomala che ricorda un’opera di Castellani, ma sotto forma di zerbino.
La mostra pensata da Giovanni Termini è un cantiere di lavori in corso sovversivi nella loro assenza di utilità. A volte mi chiedo se si tratti di oggetti travestiti da opere o viceversa. E in questo, le cose create da Termini tradiscono la loro umanità. Fingersi qualcosa di diverso da quello che si è, d’altra parte, è la più tipica e vanagloriosa delle attitudini umane.
Saverio Verini
Giovanni Termini
Il sonno della pozzanghera
testo di Saverio Verini
Inaugurazione domenica 9 marzo 12:00 - 19:30
9 marzo - 1 maggio 2025
mercoledì - venerdì 17:00 -19:30 sabato 9:30 - 12:30 / 17:00-19:30
o su appuntamento tel. +39 0573 20066 +39 335 6745185
GALLERIA ME VANNUCCI Via Gorizia, 122 Pistoia, Italia
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