Salvo D'Avila, Congettura sugli agrumi, a partire da Randall Morgan#1
Can food be art? Fotografie di Salvo D’Avila
Inaugurazione della mostra giovedì , 26 maggio alle ore 19.00
in presenza dell’artista
Luogo dell’evento: Istituto Italiano di Cultura Hamburg,
Hansastraße 6, 20149 Hamburg
Durata della mostra: 26.5. - 15.7.2016
Orario di apertura: lu – ve ore 9.00 - 13.00; lu – gio ore 14.00 - 16.00 e su richiesta
Durante la Lunga Notte dei Consolati l'Istituto Italiano di Cultura inaugura la mostra del fotografo Salvo d'Avila sull'estetica del cibo.Per l'ideazione delle sue nature morte fotografiche Salvo d'Avila si ispira alla sua profonda conoscenza dell'arte e della storia e dimostra sempre la sua ammirazione per alcuni artisti del passato e del presente.
Salvo d'Avila si è formato alla Scuola Romana di Fotografia e in seguito ha sviluppato il suo stile personale fortemente plasmato sulla pittura.
In occasione della mostra è stato realizzato un catalogo.
Il 1 giugno 2016 Lia De Venere (testo curatore)*, curatrice della mostra, terrà in Istituto una conferenza su “Il cibo nell’arte occidentale dall’antichità ad oggi”.
Le fotografie:
Le fotografie esposte all'Istituto Italiano di Cultura di Amburgo sono parte di una serie dedicata a uno dei generi preferiti da Salvo d'Avila, la natura morta, genere con il quale può rendere evidente la relazione con l'altra sua grande passione, la pittura. Il cibo è da secoli soggetto di creazioni artistiche: Caravaggio, Renoir e molti altri, hanno regalato all'umanità capolavori raffiguranti frutta, cacciagione e pesci, esaltandone con la loro arte le naturali rotondità e la brillantezza dei colori. Alcuni artisti hanno dipinto le loro nature morte in modo talmente realistico da farle sembrare fotografie. Salvo d'Avila fa incontrare le due arti, fotografia e pittura, con una tecnica inversa: le composizioni di ortaggi, uva, zucche e melograni sono fotografate con giochi di luce e ombre tali da darne un risultato pittorico. I rimandi agli artisti ammirati dal fotografo sono espliciti ma nelle sue opere si trova sempre un'impronta personale: la costruzione dell'immagine, l'uso della luce, i motivi decorativi utilizzati, la cura del dettaglio, rendono le fotografie di Salvo d'Avila antiche e moderne allo stesso tempo.
-----------------------------------------------------------------------------------------------------
Italienisches Kulturinstitut Hamburg - Hansastr. 6 ⋅ 20149 Hamburg
Tel. ++49 – (0)40-39 99 91 30 Fax - 39
iicamburgo@esteri.it
www.iicamburgo.esteri.it
Salvo D’Avila
nasce nel 1968, nella luce del Salento. Sua madre è uno storico dell'arte e insieme a suo padre ha lungamente diretto una galleria di arte contemporanea. Salvo coltiva quindi la passione di famiglia per le arti visive, specialmente per la pittura, avvalendosi di un mezzo - la macchina fotografica - le cui basi tecniche consolida presso la Scuola Romana di Fotografia. I generi nei quali principalmente si cimenta sono quello del ritratto (in particolare di imprenditori e artisti, soprattutto circensi e danzatrici) e la natura morta (con vari soggetti). E' in questo genere che è più evidente la relazione tra la pittura, citata esplicitamente, e l'invenzione personale. La sua mostra d'esordio "immagini rubate all'agricoltura" è nel 2012, in una location romana insolita e suggestiva: il mercato di Campo de' Fiori. Nel 2015 ha tenuto una personale presso l’Istituto Italiano di Cultura di Stoccarda.
#salvo_errori
Sito del fotografo Salvo D’Avila: http://www.salvodavila.com/
Salvo D’Avila: © Salvo D’Avila
Contatto per ulteriori informazioni / fotografie: Judith Brandenburg, 040 / 39 99 91 30
*Dalla natura all’arte, dalla ragione al cuore
di Lia De Venere
Fotografare è mettere sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio e il cuore.
Henri Cartier-Bresson
Indubbiamente nel mettere in scena le proprie nature morte Salvo d’Avila rivela una profonda conoscenza dell’arte e della sua storia e insieme dà conto dell’ammirazione incondizionata per alcuni artisti del passato e del nostro tempo, in tal modo indicando la fonte della molteplicità di suggestioni che hanno indirizzato la propria ricerca. D’Avila costruisce l’immagine in uno spazio esiguo, trasformando pochi frutti, ortaggi o pesci in apparizioni improvvise che squarciano il buio assoluto dello sfondo, richiamando alla mente le rare affascinanti minimali composizioni del pittore spagnolo Francisco de Zurbarán (1598-1664), giocate su netti e sapienti contrasti tra luci e ombre; oppure li immerge in una luminosità abbagliante, quasi un rimando alla pittura iperrealista di Luciano Ventrone, definito da Federico Zeri “il Caravaggio del XX secolo”. Avvicina ai nostri occhi le coppe e i canestri che li accolgono, posandoli a volte su tovaglie ornate da raffinati motivi decorativi come nei dipinti dell’età d’oro della natura morta nordeuropea o su superfici specchianti che rafforzano il carattere straniante della composizione. Mai una concessione a gratuiti virtuosismi nella cura assidua del dettaglio e nelle scelte cromatiche – raramente corrette in postproduzione – quasi la condivisione dell’idea che della pittura aveva Eugène Delacroix, per il quale “la prima virtù di un dipinto è essere una festa per gli occhi, ma ciò non significa che non vi debba essere posto per la ragione”. E se le foglie avvizzite e la superficie non più integra dei frutti appaiono come gli indizi della presa d’atto del trascorrere ineluttabile del tempo, d’altra parte costituiscono una chiara allusione alla caducità dell’esistenza umana, come nella vanitas, quel particolare tipo di natura morta che ricordava attraverso l’allegoria la precarietà di ogni cosa terrena. Una vena di sensualità, mai troppo esibita e dichiaratamente mutuata dalle foto in bianco e nero di Edward Weston, percorre spesso le immagini di d’Avila, che attraverso il colore e l’istituzione di relazioni tra gli elementi della composizione offre una rilettura personale della lezione del grande fotografo americano.
Ad accomunare le immagini di d’Avila c’è evidentemente un’attenzione amorevole per le piccole cose che popolano il nostro orizzonte quotidiano e insieme la volontà di sottrarle dal carcere dell’ordinarietà, con l’intento di condividere con chi guarda le proprie emozioni e di conferire all’attimo lo stigma della durata.
Del resto la fotografia – ha scritto Gesualdo Bufalino – “obbedisce al tempo e lo fulmina; sanziona una perdita e vi sostituisce un simulacro immortale”.
Fotografare è mettere sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio e il cuore.
Henri Cartier-Bresson
Indubbiamente nel mettere in scena le proprie nature morte Salvo d’Avila rivela una profonda conoscenza dell’arte e della sua storia e insieme dà conto dell’ammirazione incondizionata per alcuni artisti del passato e del nostro tempo, in tal modo indicando la fonte della molteplicità di suggestioni che hanno indirizzato la propria ricerca. D’Avila costruisce l’immagine in uno spazio esiguo, trasformando pochi frutti, ortaggi o pesci in apparizioni improvvise che squarciano il buio assoluto dello sfondo, richiamando alla mente le rare affascinanti minimali composizioni del pittore spagnolo Francisco de Zurbarán (1598-1664), giocate su netti e sapienti contrasti tra luci e ombre; oppure li immerge in una luminosità abbagliante, quasi un rimando alla pittura iperrealista di Luciano Ventrone, definito da Federico Zeri “il Caravaggio del XX secolo”. Avvicina ai nostri occhi le coppe e i canestri che li accolgono, posandoli a volte su tovaglie ornate da raffinati motivi decorativi come nei dipinti dell’età d’oro della natura morta nordeuropea o su superfici specchianti che rafforzano il carattere straniante della composizione. Mai una concessione a gratuiti virtuosismi nella cura assidua del dettaglio e nelle scelte cromatiche – raramente corrette in postproduzione – quasi la condivisione dell’idea che della pittura aveva Eugène Delacroix, per il quale “la prima virtù di un dipinto è essere una festa per gli occhi, ma ciò non significa che non vi debba essere posto per la ragione”. E se le foglie avvizzite e la superficie non più integra dei frutti appaiono come gli indizi della presa d’atto del trascorrere ineluttabile del tempo, d’altra parte costituiscono una chiara allusione alla caducità dell’esistenza umana, come nella vanitas, quel particolare tipo di natura morta che ricordava attraverso l’allegoria la precarietà di ogni cosa terrena. Una vena di sensualità, mai troppo esibita e dichiaratamente mutuata dalle foto in bianco e nero di Edward Weston, percorre spesso le immagini di d’Avila, che attraverso il colore e l’istituzione di relazioni tra gli elementi della composizione offre una rilettura personale della lezione del grande fotografo americano.
Ad accomunare le immagini di d’Avila c’è evidentemente un’attenzione amorevole per le piccole cose che popolano il nostro orizzonte quotidiano e insieme la volontà di sottrarle dal carcere dell’ordinarietà, con l’intento di condividere con chi guarda le proprie emozioni e di conferire all’attimo lo stigma della durata.
Del resto la fotografia – ha scritto Gesualdo Bufalino – “obbedisce al tempo e lo fulmina; sanziona una perdita e vi sostituisce un simulacro immortale”.
pubblica: